Tornando a casa, Sutty si chiese se quella di Aka fosse una cultura basata sul senso di colpa, sulla vergogna, o su qualcosa di completamente diverso. Come mai tutti erano disposti a muoversi nella stessa direzione, a parlare la stessa lingua, a credere le stesse cose? Avevano paura di essere cattivi, o paura di essere diversi?
Ecco che saltava fuori di nuovo la paura, rifletté Sutty. Un problema suo, non loro.
Quando arrivò alla locanda, la padrona di casa era seduta sulla soglia. Si salutarono timidamente con espressioni illegali. Parlando del più e del meno, Sutty disse: «Mi piace molto il tè che servite. È molto meglio dell’akakafi».
Iziezi non abbassò una mano di scatto e non portò l’altra alla bocca, però le sue mani ebbero un fremito improvviso, e dalle labbra le uscì lo stesso «Ah» pronunciato dal Fecondatore. Poi, dopo una lunga pausa, cauta, abbreviando la parola inventata, la locandiera disse: «Ma l’akakafi proviene dal tuo paese».
«Certa gente sulla Terra beve qualcosa di simile. La mia gente, no.»
Iziezi sembrava tesa. Evidentemente, era un argomento delicato.
Se ogni argomento era un campo minato, non le restava che continuare a parlare ignorando le esplosioni, rifletté Sutty. Chiese: «Non piace nemmeno a te?».
Iziezi fece una smorfia. Dopo un silenzio nervoso, rispose decisa: «Fa male alla gente. Prosciuga la linfa e disturba il flusso. Alle persone che bevono akakafi tremano le mani e sussulta il cuore. Almeno, così dicevano. In passato. Molto tempo fa. Mia nonna. Adesso tutti lo bevono. Era una di quelle vecchie regole, sai. Non una cosa moderna. Alla gente moderna piace».
Cautela; confusione; convinzione.
«All’inizio non mi piaceva il tè che bevete a colazione, però adesso mi piace. Cos’è? Cosa fa?»
La faccia di Iziezi si rasserenò. «Quello è bezit. Avvia il flusso e riunisce. Rinvigorisce anche il fegato, un poco.»
«Sei una… esperta di erbe» disse Sutty, non conoscendo la parola che indicava "erborista".
«Ah!»
Una piccola mina era esplosa. Un piccolo avvertimento.
«Gli esperti di erbe sono rispettati e stimati nel mio paese natio» disse Sutty. «Molti di loro sono dottori.»
Iziezi non disse nulla, ma a poco a poco il suo volto tornò a rasserenarsi.
Mentre Sutty si girava per entrare in casa, la disabile disse: «Tra qualche minuto, vado al corso di esercizio fisico».
"Esercizio fisico?" pensò Sutty, lanciando un’occhiata agli stecchi inerti che pendevano dalle ginocchia di Iziezi.
«Se non hai trovato un posto dove esercitarti e desideri venire…»
L’Azienda era molto forte in ginnastica. A Dovza City, tutti appartenevano a un gruppo ginnico e frequentavano corsi che curavano la forma fisica. Parecchie volte al giorno, dagli altoparlanti risuonavano musica vivace e grida di "Uno! Due!", e intere fabbriche e palazzi di uffici riversavano nelle strade e nei cortili i produttori-consumatori perché saltassero e si piegassero e ruotassero di lena all’unisono. In quanto straniera, Sutty era riuscita quasi sempre a evitare quegli esercizi, ma guardando la faccia consunta di Iziezi disse: «Vengo volentieri».
Entrò in casa, e cercò un posto d’onore in bagno per lo splendido vasetto donatole dal Fecondatore. Poi si cambiò, si tolse i gambali aderenti e indossò dei pantaloni larghi. Quando uscì dalla stanza, vide che Iziezi, usando delle stampelle, si stava sistemando su una piccola carrozzella a motore fabbricata dall’Azienda, modello Starflight. Sutty disse che le sembrava un mezzo ben costruito. Di tutt’altro avviso, Iziezi ribatté: «Va bene solo in piano» e partì, sobbalzando e sussultando sulla strada ripida e dissestata. Sutty camminò accanto a lei, dando una mano quando la carrozzella si bloccava, cosa che accadeva circa ogni due metri. Arrivarono a un edificio basso, con le solite finestre sotto i cornicioni, e un portone a due battenti. Un battente un tempo era rosso, e l’altro blu, con un motivo a nuvola dipinto sopra che adesso traspariva spettrale, a chiazze rosa e grigie attraverso le mani di bianco. Iziezi puntò dritta sulla porta e la spalancò. Sutty la seguì.
Sembrava che ci fosse buio pesto, dentro. Sutty si stava abituando a quei passaggi dall’oscurità interna al bagliore abbacinante esterno e viceversa, ma i suoi occhi no. Appena oltre la porta, Iziezi si fermò e attese che Sutty si togliesse le scarpe e le mettesse su una mensola all’estremità di una fila di scarpe, tutte di tela nera, modello StarMarch, naturalmente. Poi Iziezi girò la carrozzella, scese ad andatura sostenuta una lunga rampa, parcheggiò dietro una panca e, sollevandosi con le stampelle, vi si sedette sopra. Sembrava che la panca si trovasse al margine di una grande area coperta di stuoie, oltre la quale regnava un’oscurità vellutata.
Sutty riuscì a scorgere delle figure indistinte, sedute qui e là a gambe incrociate sulle stuoie. Sulla panca, vicino a Iziezi, sedeva un uomo con una gamba sola. Iziezi si sistemò, posò le stampelle e alzò lo sguardo verso Sutty, che indicò il pavimento con un cenno della mano. Era entrato qualcuno e la porta si era aperta per un attimo, e in quell’istante di visibilità grigia Sutty vide che Iziezi sorrideva. Una cosa bellissima e commovente.
Sutty si sedette a gambe incrociate sulla stuoia, le mani in grembo. Per parecchio tempo, non accadde nulla. Era sicuramente diverso da tutti i corsi di esercizio fisico che aveva visto, rifletté Sutty, e molto più di suo gusto. Le persone entravano in silenzio, una o due alla volta. Quando i suoi occhi si abituarono del tutto, vide che la sala era molto grande. Doveva essere stata scavata quasi interamente nel terreno. Le finestre lunghe e basse, poste dove le pareti incontravano il soffitto, erano di vetro bluastro spesso, che lasciava entrare solo una luce diffusa. Sopra le finestre, il soffitto saliva formando una cupola o una serie di volte: Sutty riusciva a scorgere solo travi scure che si ramificavano. Frenò gli occhi curiosi e si sforzò di rimanere seduta, di respirare, e di non addormentarsi.
Sfortunatamente, per lei la meditazione da seduta e il sonno tendevano sempre a convergere. Quando l’uomo che le sedeva accanto cominciò a dilatarsi e a contrarsi come gli ideogrammi sulla parete del negozio del Fecondatore, provò solo un vago interesse. Poi, assumendo col busto una postura un po’ più eretta, vide che l’uomo stava alzando le braccia tese sopra la testa fino a unire il dorso delle mani, e poi abbassava le braccia molto lentamente, seguendo il ritmo regolare del respiro. Iziezi e alcune altre persone stavano facendo la stessa cosa, più o meno allo stesso ritmo. Quei movimenti sereni, silenziosi, erano come il pulsare di una medusa in un acquario buio. Sutty si unì alla pulsazione.
Altri movimenti furono introdotti qua e là, uno alla volta, tutti movimenti delle braccia, e tutti al ritmo lento del respiro. C’erano periodi di riposo, poi la calma espansione e contrazione — tendere e rilassare, dilatare e contrarre — ricominciava, trasmettendosi da una figura indistinta all’altra. Un suono basso, bassissimo, accompagnava i movimenti, un mormorio ritmico muto, musica del respiro di cui non si distingueva la sorgente. Dall’altra parte della sala, una figura si alzò con estrema lentezza, biancastra, ondeggiando: un uomo o una donna, in piedi, stava compiendo i movimenti con le braccia, e piegava il busto in avanti o indietro o di lato. Altre due o tre persone si alzarono con la stessa flessuosità snodata, e cominciarono a protendersi, a oscillare, senza mai staccare un piede dal pavimento, simili più che mai a creature marine radicate, anemoni, una foresta di alghe, mentre il canto incessante, quasi impercettibile, pulsava come il moto ondoso, crescendo e calando…
Luce, rumore… una violenta esplosione bianca, come se il tetto fosse volato via. Delle lampade quadrate sfolgorarono, appese a volte polverose. Sutty rimase seduta, esterrefatta, mentre tutt’intorno a lei gli altri balzavano in piedi e cominciavano a saltellare, a scalciare, a piegarsi come pupazzi a molla, obbedendo a una voce aspra che gridava: «Uno! Due! Uno! Due!». Sutty si girò verso Iziezi, che sedeva sulla panca sobbalzando come una marionetta, sferrando pugni all’aria, uno, due, uno, due. Il mutilato vicino a lei scandiva il tempo a squarciagola, battendo una stampella sulla panca.