Uno dei grandi poemi epici che stava registrando un po’ alla volta riguardava una lunga e sanguinosa contesa per una valle fertile, iniziata come litigio tra un fratello e una sorella per un’eredità. Le lotte tra regioni e città-stato per il dominio economico si erano susseguite in tutta la storia akana, sfociando spesso in conflitto armato. Ma in quelle guerre e in quegli scontri combattevano soldati di professione, su campi di battaglia. Era molto raro, e condannato nelle storie e negli annali come sbagliato, vergognoso e punibile, che i soldati distruggessero città o campagne, o che facessero del male ai civili. Gli akani si scontravano per avidità e sete di potere, non per odio o in nome di un credo. Combattevano secondo regole precise. Avevano le stesse regole. Erano un unico popolo. Il loro modo di pensare e di vivere era universale. Avevano cantato tutti una sola canzone, anche se a molte voci.

Gran parte di quello spirito unitario comune, a giudizio di Sutty, era dipeso dalla scrittura. Prima della rivoluzione culturale dovzana esistevano parecchie lingue principali e innumerevoli dialetti, ma usavano tutti gli stessi ideogrammi, che ognuno era in grado di comprendere. Per quanto sotto certi aspetti fossero scomode e arcaiche, le scritture non alfabetiche potevano unire e conservare — come avevano fatto sulla Terra gli ideogrammi cinesi — un gran numero di lingue e dialetti diversi; e grazie alle scritture non alfabetiche, testi scritti migliaia di anni addietro erano leggibili senza traduzione, anche se i suoni delle parole erano cambiati fino a diventare irriconoscibili. Sì, per i riformatori dovzani, forse quello era stato proprio il motivo principale che li aveva convinti a sbarazzarsi della vecchia scrittura: oltre a intralciare il progresso, era pure una forza conservatrice attiva. Manteneva in vita il passato.

A Dovza City, Sutty non aveva conosciuto nessuno in grado di leggere la vecchia scrittura, o che ammettesse di saperlo fare. Le sue poche domande iniziali a quel riguardo avevano suscitato una tale disapprovazione, dinieghi così recisi, che aveva imparato subito a tacere, a non dire a nessuno che lei sapeva leggere i vecchi caratteri. E i funzionari con cui aveva a che fare non le avevano mai chiesto nulla. La vecchia scrittura non veniva più usata da decenni; probabilmente non si erano mai resi conto che, a causa dei fenomeni temporali relativi ai viaggi spaziali, era proprio quella la scrittura che Sutty aveva imparato.

Non era stata del tutto sciocca a chiedersi, là a Dovza City, se poteva essere davvero l’unica persona del pianeta capace di leggerla adesso, e non era stata del tutto sciocca a provare sgomento a quell’idea. Se portava l’intera storia di un popolo, non il suo popolo, nella testa, bastava dimenticare una parola, un carattere, un segno diacritico, e una parte di tutte quelle vite, di tutti quei secoli di pensiero e sentimento, sarebbe andata perduta per sempre…

Era stato un enorme sollievo trovare, lì a Okzat-Ozkat, molte persone, vecchi e giovani, perfino bambini, che portavano e si ripartivano quel carico prezioso. I più sapevano leggere e scrivere alcune decine di caratteri, o alcune centinaia, e molti studiavano per completare l’apprendimento. Nelle scuole dell’Azienda, i bambini imparavano l’alfabeto di derivazione hainiana e venivano educati come produttori-consumatori; a casa o in lezioni illegali in stanzette dietro un negozio, un laboratorio, o un magazzino, imparavano gli ideogrammi. Si esercitavano scrivendo i caratteri su piccole lavagne che si potevano cancellare in un attimo. I loro insegnanti erano lavoratori, padroni di casa, negozianti, gente comune della cittadina.

Quegli insegnanti della vecchia lingua e delle vecchie usanze, i "colti", erano chiamati maz. Yoz era un termine che indicava rispettosa uguaglianza; maz, come appellativo, indicava maggiore rispetto. Come titolo o nome significava — capì a poco a poco Sutty — una funzione o una professione che non era definibile come prete, insegnante, dottore o studioso, ma conteneva aspetti di ognuna di esse.

Tutti i maz che Sutty conobbe — e col passare delle settimane conobbe la maggior parte dei maz di Okzat-Ozkat — vivevano in condizioni di povertà più o meno agiata. Di solito avevano un mestiere per arrotondare quello che percepivano come maz per insegnare, dispensare medicamenti e consigli sull’alimentazione e la salute, celebrare cerimonie quali matrimoni e funerali, e leggere e parlare nelle riunioni serali, le narrazioni. I maz erano poveri non perché le vecchie consuetudini stessero morendo o fossero care solo agli anziani, ma perché la gente che pagava i maz era povera. Quella era una cittadina marginale, che arrancava fra tante asperità, senza ricchezza. Gli abitanti, però, sostenevano i maz, pagavano i loro insegnamenti "a parola", per usare l’espressione locale. La sera, andavano a casa di un maz ad ascoltare le storie e le discussioni, e pagavano regolari parcelle in monete di rame o banconote di piccolo taglio. Non c’era nulla di vergognoso in quella transazione, né da parte di chi pagava né da parte di chi percepiva; non c’era l’ipocrisia di una "donazione": si pagavano in contanti le prestazioni di un professionista.

Molti bambini partecipavano a quelle riunioni serali, e ascoltavano, più o meno, le narrazioni, o si addormentavano tranquilli. I bambini assistevano gratis fino ai quindici anni, età in cui cominciavano a pagare le stesse parcelle degli adulti. Gli adolescenti prediligevano le sedute di certi maz specializzati nella recita o nella lettura di poemi epici e racconti avventurosi, come La guerra della valle e le storie di Ezid la Meraviglia. I corsi di esercizio fisico di tipo più vigoroso e marziale erano frequentatissimi da giovani di ambo i sessi.

I maz, comunque, erano per la maggior parte di mezza età o vecchi, non perché stessero estinguendosi come gruppo, ma perché, come dicevano, ci voleva una vita per imparare a camminare nella foresta.

Sutty voleva scoprire perché diventare colti fosse un lavoro interminabile, ma anche scoprirlo sembrava un’impresa interminabile. Cosa credeva quella gente? Cosa considerava sacro? Sutty continuò a cercare il nocciolo della questione, le parole al centro della Narrazione, i libri sacri da studiare e memorizzare. Li trovò. Ne trovò molti, non uno fondamentale. Nessuna bibbia. Nessun corano. Dozzine di upanishad, un milione di surra. Ogni maz le diede qualcosa di diverso da leggere. Aveva già letto o sentito innumerevoli testi: scritti, orali, scritti e orali; molti, se non la maggior parte, esistevano in più di una versione. Gli argomenti delle narrazioni sembravano infiniti, anche adesso che tanto materiale era stato distrutto.

All’inizio dell’inverno, Sutty pensò di avere trovato i testi principali del sistema in una raccolta di poesie e trattati chiamata Il pergolato. Tutti i maz ne parlavano con grande rispetto, ne citavano brani. Sutty lo studiò per settimane. A quanto era in grado di stabilire, era stato scritto in prevalenza dai millecinquecento ai mille anni addietro nella regione centrale del continente, durante un periodo di prosperità materiale e di fermento artistico e intellettuale. Era un vasto compendio di raffinati ragionamenti filosofici su essere e divenire, forma e caos, meditazioni mistiche sulla Creazione e il Creato, e splendide e complesse poesie metafisiche riguardanti l’Uno che è Due, i Due che sono Uno, il tutto collegato, illuminato, e complicato dai commentari e dalle annotazioni in margine dei secoli successivi. La nipote di zio Hurree, la studiosa pedante, si lanciò con entusiasmo in quella giungla di significati, disposta a smarrirsi per anni nell’intrico. Fu riportata alla realtà solo dalla propria coscienza, che le stette dietro portando il greve fardello del buonsenso, rimproverandola: "Ma questo non è la Narrazione, è solo una parte della Narrazione, solo una piccola parte…".


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