Maz Ottiar, dall’altra parte della stanzetta, batté sul tamburo, mormorando una lunga cronaca di tempi antichi a un ascoltatore solitario, un decenne assonnato.

Maz Uming si dondolò e corrugò la fronte. «Così, senza la narrazione, le rocce e le piante e gli animali vanno avanti benissimo. Ma le persone, no. Le persone vagano smarrite. Non distinguono una montagna dal riflesso della montagna in una pozzanghera. Non distinguono un sentiero da un dirupo. Si fanno male. Si arrabbiano e si fanno male a vicenda, o lo fanno alle altre cose. Fanno male agli animali perché sono in collera. Litigano e si imbrogliano a vicenda. Vogliono troppo. Trascurano le cose. Le coltivazioni non vengono seminate. Ne vengono seminate troppe. I fiumi si sporcano di merda. La terra si sporca di veleno. La gente mangia cibo avvelenato. Tutto è confuso. Tutti stanno male. Nessuno si prende cura della gente malata, delle cose malate. Ma questo è grave, gravissimo, no? Perché badare alle cose è il nostro compito, no? Badare alle cose, badare a noi stessi. Chi altro dovrebbe farlo? Gli alberi? I fiumi? Gli animali? Quelli fanno solo ciò che sono. Ma noi siamo qui, e dobbiamo imparare in che modo starci, come fare le cose, come mandare avanti le cose nel modo giusto. Il resto del mondo sa il fatto suo. Conosce l’Uno e la Miriade, l’Albero e le Foglie. Noi sappiamo soltanto come imparare. Come studiare, come ascoltare, come parlare, come narrare. Se non raccontiamo il mondo, noi non conosciamo il mondo. Ci perdiamo nel mondo, moriamo. Ma dobbiamo raccontarlo bene, in modo veritiero. Chiaro? Dobbiamo prenderci cura di esso e raccontarlo com’è davvero. Ecco cos’è andato storto. Laggiù, laggiù nella regione di Dovza, quando hanno cominciato a raccontare bugie. Quei falsi maz, quei grandi munan, quei maz tirannici. Dicevano alla gente che solo loro conoscevano la verità, che solo loro potevano parlare, e tutti dovevano ripetere le loro bugie. Traditori, usurai! Ingannare la gente per denaro! Arricchirsi con le bugie, tiranneggiare la gente! Non c’è da meravigliarsi se il mondo ha smesso di funzionare! Non c’è da meravigliarsi se la polizia ha preso il potere!»

Il vecchio era rosso in volto, e agitava la mano sana come se stringesse un bastone. Sua moglie si alzò, gli si avvicinò e gli diede il tamburo e la bacchetta, senza interrompere la cantilena della narrazione. Uming si morse un labbro, scosse il capo, si irritò un po’, batté il tamburo piuttosto forte, e proseguì la narrazione.

«Mi dispiace» si scusò Sutty con Ottiar, mentre la vecchia l’accompagnava alla porta. «Non intendevo turbare maz Uming.»

«Oh, non è nulla» disse Ottiar. «Sono cose successe prima che io/noi nascessimo. Giù, nella regione di Dovza.»

«Non facevate parte di Dovza, quassù?»

«Siamo per la maggior parte rangma, qui. La mia/nostra gente parlava tutta il rangma. I nonni non sapevano quasi nulla di dovzano finché non è arrivata la polizia dell’Azienda e ha costretto tutti a parlarlo. Loro lo detestavano! Lo parlavano col peggior accento possibile!»

Ottiar le rivolse un sorriso allegro. Sutty ricambiò il sorriso, ma s’incamminò lungo la stradina in discesa immersa in profondi pensieri. L’invettiva di Uming contro i "maz tirannici" si riferiva a prima che l’Azienda dovzana governasse il mondo, a prima dell’"arrivo della polizia", forse a prima che arrivassero gli Osservatori dell’Ekumene. Mentre il maz parlava, Sutty si era resa conto che delle centinaia di storie e racconti che aveva sentito nelle narrazioni, nessuna riguardava avvenimenti dovzani, o avvenimenti degli ultimi cinque o sei decenni, se non fatti strettamente locali. Non aveva mai sentito un maz parlare dell’arrivo degli extraplanetari, dell’ascesa dello Stato Azienda, o di qualche evento pubblico degli ultimi settant’anni o più.

«Iziezi» chiese quella sera, «chi erano i maz tirannici?»

Stava aiutando Iziezi a pelare una varietà di fungo appena spuntata sulle colline ai margini dei cumuli di neve che stavano sciogliendosi. Si chiamava "demyedi", "primo di primavera", sapeva di neve, ed era ottimo per bilanciare i germogli piccanti di banam e il grasso sostanzioso del pesce, mantenendo così fluida la linfa e tranquillo il cuore. Qualunque cosa le fosse sfuggita e avesse frainteso in quel mondo, Sutty aveva almeno imparato quando, perché e come cucinarsi il cibo.

«Oh, è stato molto tempo fa» rispose Iziezi. «Quando hanno cominciato a tiranneggiare tutti, là a Dovza.»

«Cent’anni fa?»

«Forse tanto tempo fa, sì.»

«Chi è "la polizia"?»

«Oh, sai, quelli in divisa blu e marrone.»

«Solo loro?»

«Be’, immagino che chiamiamo "polizia" tutta quella gente. Di laggiù. I dovzani… Prima arrestavano i maz tiranni. Poi hanno cominciato ad arrestare tutti i maz. Quando hanno mandato quassù dei soldati ad arrestare la gente negli umyazu, abbiamo cominciato a chiamarli "la polizia". E chiamiamo "polizia" anche gli skuyen. O diciamo che "lavorano per la polizia".»

«Gli skuyen?»

«Quelli che denunciano alle divise blu e marrone le cose illegali. Libri, narrazioni, qualsiasi cosa… Per soldi. O per odio.» La voce gentile di Iziezi cambiò, pronunciando le ultime parole. La sua faccia si era chiusa nell’abituale espressione di sofferenza.

Libri, narrazioni, qualsiasi cosa. Quello che si cucinava. Con chi si faceva l’amore. Come scrivevi la parola albero. Qualunque cosa.

Non c’era da meravigliarsi se il sistema era incoerente, frammentario. Non c’era da meravigliarsi se il mondo di Uming aveva smesso di funzionare. Era un miracolo che di quel mondo rimanesse ancora qualcosa.

Come se le intuizioni di Sutty l’avessero evocato dal nulla, la mattina seguente il Controllore le passò accanto per strada. Non la guardò.

Alcuni giorni dopo, Sutty andò a trovare maz Sotyu Ang. Il negozio era chiuso. Non era mai stato chiuso, prima. Sutty chiese a un vicino che stava spazzando il gradino d’ingresso se Sotyu avrebbe riaperto presto. «Credo che il produttore-consumatore sia via» rispose vago l’uomo.

Maz Elyed le aveva prestato un bellissimo libro antico… prestato o donato, Sutty non ne era sicura. «Tienilo, è al sicuro con te» le aveva detto. Era un’antica antologia di poesie delle Isole Orientali, un tesoro inesauribile. Sutty era impegnatissima a studiarla e trasferirla nel noter. Passarono parecchi giorni prima che pensasse di nuovo di andare a trovare il vecchio amico, il Fecondatore. S’incamminò lungo la salita ripida di ardesia che brillava abbagliante al sole. La primavera arrivava tardi ma veloce in quelle colline pedemontane della grande catena. L’aria era uno sfolgorio di luce. Sutty passò davanti al negozio senza riconoscerlo.

Disorientata, tornò indietro, e trovò il negozio. Era tutto bianco: imbiancato, una facciata spoglia. Tutte le scritte, i caratteri marcati, le vecchie parole… tutto scomparso. Ridotto al silenzio. Una nevicata bianca… La porta era socchiusa. Sutty guardò dentro. Il banco e le pareti di cassettini erano stati divelti. La stanza era vuota, sporca, saccheggiata. Sui muri, le parole vive, le parole che respiravano, erano state cancellate con pittura marrone.

L’albero-lampo biforcuto…

Il vicino del Fecondatore era uscito quando lei era passata. Stava ancora spazzando il gradino. Sutty fece per parlargli, poi si trattenne. Uno skuyen? Da cosa poteva capirlo?

Si avviò verso casa e poi, vedendo il fiume luccicare in basso, svoltò, seguì il fianco della collina e uscì dall’abitato, imboccò un sentiero che scendeva fino al fiume e lo costeggiava. Aveva percorso quel sentiero una volta, un giorno di tanto tempo addietro, all’inizio dell’autunno, quando aspettava che Tong Ov le dicesse di tornare nella metropoli.

Andò verso la sorgente, passando accanto a boschetti di arbusti che avevano messo le foglie nuove, e agli alberi stentati che crescevano lì, non lontano dal limite della vegetazione arborea. L’Ereha scorreva azzurro latteo, arricchito dalla prima acqua di scioglimento dei ghiacciai. Il ghiaccio scricchiolava nei solchi del sentiero, ma il sole era caldo sul capo e sulla schiena di Sutty. Aveva ancora la bocca secca per la sorpresa. E la gola le faceva male.


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