Tornare in città. Doveva tornare in città. Subito. Con i tre cristalli registrati e il noter pieno di materiale, pieno di poesia. Dare tutto a Tong Ov prima che il Controllore se ne impossessasse.

Non c’era modo di inviarlo. Doveva portarlo lei. Ma il viaggio doveva essere autorizzato. Oh, Rama! Dov’era il suo chip d’identità? Erano mesi che non lo metteva. Nessuno lì usava i chip d’identità, a meno che non si lavorasse per l’Azienda o non si dovesse andare in qualche ufficio. Era nella valigetta, nella sua stanza. Avrebbe dovuto usare il codice d’identità al telefono di Dock Street, mettersi in contatto con Tong Ov, chiedergli di farle avere un’autorizzazione per tornare in città. In aereo. Raggiungere Eltli col battello fluviale e prendere l’aereo là. Agire alla luce del sole, perché tutti sapessero, così non avrebbero potuto fermarla di nascosto, ingannarla in qualche modo. Confiscarle il materiale. Ridurla al silenzio… Dov’era maz Sotyu? Cosa gli stavano facendo? Era colpa sua?

Non poteva pensarci, adesso. Doveva cercare di salvare quello che aveva appreso da Sotyu. Sotyu e Ottiar e Uming e Odiedin e Elyed e Iziezi, la cara Iziezi. Non poteva pensare ad altro, adesso.

Fece dietrofront, ripercorse in fretta il sentiero lungo il fiume e tornò a Okzat-Ozkat, trovò il bracciale col chip d’identità nella valigetta in camera sua, andò in Dock Street e chiamò Tong Ov all’Ufficio Ekumenico di Dovza City.

Rispose la segretaria dovzana di Tong Ov, e disse altezzosa che Tong era in riunione. «Devo parlargli subito» insisté Sutty, e non fu sorpresa quando la segretaria rispose in tono mite che l’avrebbe chiamato.

Non appena sentì la voce di Tong Ov, Sutty disse in hainiano, e le parole le suonarono strane, aliene: «Inviato, è parecchio che non mi faccio viva, e ho pensato che fosse il caso di parlare un po’».

«Capisco» fece Tong, e aggiunse alcune altre cose insignificanti, mentre entrambi cercavano di trovare il modo di dire qualcosa di importante. Peccato che lui non conoscesse qualcuna delle lingue studiate da Sutty, e che lei non sapesse il chiffewariano. Purtroppo le uniche lingue che conoscevano tutti e due erano l’hainiano e il dovzano.

«Nulla in particolare da devolvere?» domandò Tong Ov.

«No, no, non proprio… Però mi piacerebbe portarti il materiale che ho raccolto» spiegò Sutty. «Solo appunti sulla vita quotidiana a Okzat-Ozkat.»

«Speravo di venirti a trovare lì, ma pare che la cosa sia controindicata, al momento» disse Tong. «Con una finestra grande appena per uno, naturalmente è un peccato chiudere le imposte. Ma so che ami molto Dovza City, e immagino che ti manchi. Inoltre sono certo che tu non abbia trovato nulla di particolarmente interessante, lì. Quindi, se il tuo lavoro è finito, torna pure in città a divertirti.»

Sutty annaspò e balbettò, e alla fine disse: «Be’, come sai, era prevedibile… Lo Stato Azienda è una cultura molto omogenea, molto potente e decisamente affermata. Quindi qui è tutto… sì, è tutto come lì in città, tutto molto simile. Ma forse dovrei fermarmi e finire i… finire i nastri prima di portarteli, eh? Non sono molto interessanti».

«Come sai, qua» disse Tong «i nostri ospiti ci mettono a disposizione informazioni di ogni tipo. E noi mettiamo a disposizione le nostre. Qui tutti ricevono un sacco di materiale nuovo, molto istruttivo e stimolante. Quindi quello che stai facendo lì non è poi così importante. Non preoccuparti. Naturalmente, io non sto affatto in pensiero per te. Non è il caso che stia in pensiero. Vero?»

«No, sì, certo che no» fece Sutty. «Davvero.»

Lasciò il posto telefonico mostrando il codice d’identità alla porta, e tornò in fretta alla locanda, a casa. Credeva di avere afferrato il discorso contorto di Tong, ma adesso lo ricordava già in modo molto confuso. Le pareva che Tong avesse cercato di dirle di rimanere lì, di non provare a portargli il materiale che aveva raccolto, perché avrebbe dovuto mostrarlo ai funzionari in città, e gliel’avrebbero confiscato, però non era sicura che avesse voluto dire proprio quello. Forse Tong intendeva dire davvero che il materiale non era poi così importante. O forse voleva informarla che non poteva assolutamente aiutarla.

Aiutando Iziezi a preparare la cena, Sutty ebbe la certezza di essersi fatta prendere dal panico, di avere commesso una sciocchezza chiamando Tong, attirando così l’attenzione su di sé, e sui suoi amici e informatori. Decise che doveva essere cauta, prudente, perciò non disse nulla del negozio profanato.

Iziezi conosceva maz Sotyu Ang da anni, ma neppure lei fece alcun accenno al Fecondatore. Si comportò come se non fosse accaduto nulla. Mostrò a Sutty come tagliare il numien fresco… sottile e in diagonale, perché se ne sprigionasse tutta la fragranza.

Era una delle sere in cui Elyed insegnava. Dopo che ebbe mangiato con Akidan e Iziezi, Sutty si accomiatò e percorse River Street, raggiungendo la parte povera della cittadina, il quartiere delle iurte, dove l’Azienda non aveva portato l’illuminazione elettrica e c’erano solo i bagliori fiochi delle lampade a olio nelle baracche e nelle tende. C’era freddo, però non era il freddo secco e tagliente dell’inverno. Era un freddo umido che sapeva di primavera, pieno di vita. Il cuore di Sutty era colmo di terrore, mentre si avvicinava al negozio di Elyed: temeva di trovarlo tutto imbiancato, sventrato, distrutto…

Il bisnipotino urlava a squarciagola perché qualcuno gli stava togliendo di mano un cacciavite, e i nipoti sorrisero a Sutty quando attraversò il negozio e andò nella stanza sul retro. Era in anticipo per l’ora d’insegnamento. Non c’era nessuno nella stanzetta, a parte la vecchia e un pronipote tranquillo che sistemava le sedie.

«Maz Elyed Oni, conosci maz Sotyu Ang… l’erborista… il suo negozio…» Sutty non riuscì a impedire che le parole le uscissero di bocca.

«Sì» fece la vecchia. «Sta con sua figlia.»

«Il negozio, l’erbario…»

«Quello non c’è più.»

«Ma…»

Le doleva la gola. Sutty si sforzò di tenere a freno lacrime di rabbia e di sdegno che volevano sgorgare, lì con quella vecchia che avrebbe potuto essere sua nonna, che era sua nonna.

«È stata colpa mia.»

«No» disse Elyed. «Tu non hai fatto nulla di male. Sotyu Ang non ha fatto nulla di male. Non c’è nessuna colpa. Le cose vanno male. Non è sempre possibile agire bene quando la situazione è difficile.»

Sutty rimase in silenzio. Si guardò intorno. Guardò la stanzetta alta, il tappeto rosso quasi nascosto da sedie e cuscini; tutto povero, pulito; un mazzo di fiori di carta infilato in un brutto vaso sul tavolo basso; il pronipote che disponeva con delicatezza i cuscini sul pavimento; la vecchia maz che si accomodava pian piano, a fatica, su un guanciale sottile vicino al tavolo. Sul tavolo, un libro. Vecchio, consunto, letto molte volte.

«Credo che forse sia successo il contrario, yoz Sutty. L’estate scorsa, Sotyu ci ha detto che pensava che un suo vicino avesse informato la polizia a proposito del suo erbario. Poi sei arrivata tu, e non è successo nulla.»

Sutty si sforzò di comprendere quanto aveva detto Elyed. «Io sarei stata una protezione per lui?»

«Credo di sì.»

«Perché non vogliono che io veda… quello che fanno? Ma allora perché adesso…?»

Elyed alzò le spalle fragili. «Quella gente non coltiva la pazienza» spiegò.

«Dunque, dovrei rimanere qui» disse lentamente Sutty, cercando di capire. «Pensavo fosse meglio per voi che io me ne andassi.»

«Penso che potresti andare sul Silong.»

La sua mente si annebbiò. «Sul Silong?»

«L’ultimo umyazu è là.»

Sutty non disse nulla, e dopo un po’ Elyed aggiunse scrupolosa: «L’ultimo, a quanto ne so. Forse ne è rimasto qualcun altro in Oriente, nelle Isole. Ma qui in Occidente, dicono che il Grembo del Silong sia l’ultimo. Moltissimi libri sono stati mandati là. Da parecchi anni. Dev’essere una grande biblioteca. Non come la Montagna d’Oro, non come l’Umyazu Rosso, non come Atangen. Ma quello che è stato salvato, perlopiù si trova là».


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