«Stai bene, yoz Long?»
«Sì. Tu stai bene, yoz Sutty?»
Avanzarono insieme.
Sutty udì Kieri che diceva: «L’ho visto, mi sono girata a guardare… stentavo a crederci… stava cercando di volare tra i pilastri…»
«No, l’ho visto, era là fuori, stava salendo lungo il passo, ci seguiva, poi mi è sembrato che una raffica di vento lo colpisse, inclinandolo di traverso, sbattendolo giù tra le rocce!» Quello era Akidan.
«Lei l’ha preso nelle sue mani» disse Naba, l’uomo dell’ultimo villaggio estivo.
I tre maz erano accanto al relitto, in mezzo ai rottami.
Shui si era inginocchiata e stava rompendo qualcosa con un sasso, dando colpi rabbiosi, metodici. I resti di un trasmettitore, vide Sutty. La vendetta dell’età della pietra, disse fredda la sua mente.
La sua mente sembrava molto fredda, distaccata dal resto di lei, glaciale.
Sutty si avvicinò e guardò l’elicottero precipitato. Si era spaccato in uno strano modo. Il pilota penzolava dal sedile, trattenuto dalle cinture di sicurezza, quasi capovolto. La faccia era in gran parte nascosta da una sciarpa di lana inzuppata di sangue. Vide i suoi occhi, grumi di gelatina.
Sul terreno sassoso, tra Odiedin e Siez, giaceva un altro uomo. I suoi occhi erano vivi. Stava fissando Sutty. Alcuni istanti dopo, lei lo riconobbe.
Tobadan, il guaritore, stava passando le mani, rapido e leggero, sul corpo e sugli arti dell’uomo, anche se di sicuro non poteva capire granché attraverso gli indumenti pesanti. Continuava a parlare, come se volesse tenere sveglio l’uomo. «Puoi toglierti il casco?» chiese. Poco dopo, l’uomo cercò di accontentarlo, armeggiando col cinturino. Tobadan lo aiutò. Lui continuò a fissare Sutty con un’espressione di ottusa perplessità. La sua faccia, sempre decisa e dura, adesso appariva fiacca, inerte.
«È ferito?»
«Sì» rispose Tobadan. «Questo ginocchio. La schiena. Non ci sono fratture, mi pare.»
«Sei stato fortunato» disse la mente fredda di Sutty, parlando ad alta voce.
L’uomo la fissò, distolse lo sguardo, fece un gesto debole, provò a sollevarsi a sedere. Odiedin gli premette con delicatezza sulle spalle, dicendo: «Non muoverti. Aspetta. Sutty, non lasciarlo alzare. Dobbiamo tirare fuori l’altro uomo. Tra poco verranno a darci una mano».
Girandosi verso la conca, verso le caverne, Sutty vide delle sagome minuscole che attraversavano la neve, affrettandosi verso di loro.
Prese il posto di Odiedin, e rimase in piedi accanto al Controllore. Il ferito era steso sul terreno con le braccia incrociate sul petto. Di tanto in tanto, rabbrividiva. Anche lei tremava. Batteva i denti. Si strinse le braccia attorno al corpo.
«Il tuo pilota è morto» gli disse.
Lui non disse nulla. Rabbrividì.
All’improvviso, ci furono altre persone attorno a loro. Lavorarono con efficienza: immobilizzarono il ferito su una barella di fortuna, sollevarono la barella e si incamminarono verso le caverne, il tutto in un paio di minuti. Altre persone trasportarono il morto. Alcuni si radunarono attorno a Odiedin e ai giovani maz. C’era un ronzio sommesso di voci che non facevano che ronzare nella testa di Sutty, senza senso come il linguaggio delle mosche.
Cercò Long, lo raggiunse, e insieme attraversarono la conca. Erano più lontano di quanto non sembrasse, la parete della montagna e l’ingresso delle caverne. In alto, un paio di geyma si libravano in lunghe spirali lente. Il sole era già dietro la sommità della parete. La gigantesca ombra blu del Silong si stagliava contro lo Zubuam.
Le caverne erano diverse da qualsiasi cosa Sutty avesse mai visto. Erano numerose, centinaia, alcune minuscole, nient’altro che bollicine nella roccia, altre grandi quanto porte di hangar. Formavano un merletto di cerchi, congiungendosi e sovrapponendosi nella parete di roccia, intagli, motivi. I bordi delle imboccature erano ornati da gruppi di cerchi più piccoli, pietra argentea che brillava sul nero tenebra, simili a bolle di sapone, schiuma, ai contorni di figure di Mandelbrot.
Davanti a un ingresso era stata alzata una piccola staccionata. Mentre passavano, Sutty diede un’occhiata dentro, e il muso bianco di un giovane minule la guardò con tranquilli occhi scuri. C’era un’intera stalla di minule nelle caverne. Sutty sentiva il loro odore pungente, caldo, erbaceo. Le imboccature delle caverne erano state allargate e portate a livello del suolo dove necessario, ma avevano conservato la loro forma circolare. Le persone che lei e Long stavano seguendo entrarono in una di quelle grandi porte rotonde che immettevano nella montagna. Quando fu all’interno, Sutty si voltò un attimo a guardare l’entrata e vide la luce del giorno come un perfetto cerchio ardente incastonato nel nero assoluto.
Sette
Non era una città con vessilli e processioni auree, né un tempio con tamburi e campane e salmodiare di sacerdoti. Era un luogo molto freddo, molto buio, molto povero. Silenzioso.
Cibo, stuoie e coperte, olio per le lampade, fornelli e stufe, tutto quello che consentiva di vivere lì, al Grembo del Silong, doveva essere portato dalle colline orientali a dorso di minule o in zaini sulle spalle di esseri umani, un poco alla volta, in piccolissime carovane che non attirassero l’attenzione, nei pochi mesi in cui era possibile raggiungere il luogo. D’estate vi si trovavano trenta o quaranta uomini e donne, che vivevano nelle caverne. Alcuni di loro portavano libri, carte, testi della Narrazione. Si fermavano per sistemare e proteggere tutti i libri che si trovavano già lì, le migliaia e migliaia di volumi portati nel corso dei decenni da ogni angolo del grande continente. Si fermavano a leggere e a studiare, per stare con i libri, per stare nelle caverne piene di essere.
Nei primi giorni che trascorse in quel luogo, a Sutty parve di vivere in un sogno fatto di oscurità, di stranezza. Le caverne erano di per sé stupefacenti: cavità sferiche infinite, collegate, comunicanti, pareti e pavimenti e soffitti bui che curvavano e si fondevano senza soluzione di continuità, così disorientanti che a volte lei aveva la sensazione di fluttuare senza peso. I suoni echeggiavano e quindi non si capiva da che direzione provenissero. Non c’era mai abbastanza luce.
I pellegrini del suo gruppo piantarono le tende in una grande cavità a volta e dormirono entro quei ripari, rannicchiandosi per scaldarsi, come avevano fatto durante il viaggio. In altre caverne c’erano altre piccole costellazioni di tende. Una coppia di maz aveva occupato un anfratto quasi perfettamente sferico di circa tre metri e ne aveva fatto il proprio rifugio privato. Fornelli e tavoli si trovavano in un’ampia caverna dal fondo piatto che riceveva luce da un paio di aperture in alto, e tutti si riunivano là all’ora del pasto. I cuochi suddividevano il cibo con scrupolo. Mai abbastanza, e sempre le stesse poche cose: tè lungo, farinata di fagioli, formaggio stagionato, foglie essiccate di yota simili a spinaci, un assaggio di sottaceti piccanti. Cibo invernale, anche se era estate. Cibo per le radici, per aumentare la resistenza.
I maz e gli studenti e le guide che si trovavano lì quell’estate erano tutti del Nord e dell’Est, delle vaste terre collinari e delle pianure del centro del continente, Amareza, Doy, Kangnegne. Quei maz erano gente di città, molto più eruditi e raffinati dei maz della cittadina di collina che Sutty conosceva. Portatori di una profonda e ancora intatta disciplina intellettuale, fisica e spirituale, eredi di una tradizione più vasta di quanto Sutty avesse mai immaginato, anche se in rovina e costretta alla segretezza, avevano un che di impersonale oltre a emanare un’aura di autorevolezza. Non si atteggiavano a sapientoni (l’espressione era di zio Hurree), ma perfino il più mite di loro era circondato da quella specie di aura o campo — Sutty detestava simili parole eppure doveva usarle — che impediva all’interlocutore un approccio informale. Erano distaccati, immersi nella narrazione, nei libri, nei tesori delle caverne.