La mattina seguente l’arrivo dei nuovi venuti, i maz di nome Igneba e Ikak li condussero a visitare quella che chiamavano la Biblioteca. Dei numeri scritti con pittura luminescente sopra le aperture corrispondevano a una mappa delle caverne che i maz mostrarono al gruppetto. Passando sempre a un numero più basso, se ci si smarriva nel labirinto — ed era facilissimo — si tornava sempre nelle caverne esterne. L’uomo, Igneba Ikak, aveva una torcia elettrica, ma come tanti prodotti akani era inaffidabile o difettosa e continuava a spegnersi. Ikak Igneba aveva una lampada a olio. Con quella, un paio di volte, accese delle lampade appese alle pareti, per illuminare le caverne dell’essere, le camere sferiche piene di parole, dov’era nascosta la Narrazione, nel silenzio. Sotto la roccia, sotto la neve.
Libri, migliaia di libri, rilegati in pelle e in tela e in legno e in brossura, manoscritti non rilegati in scatole intarsiate e dipinte, in scrigni ingemmati, frammenti di antica scrittura scintillanti su lamina d’oro, rotoli di carta in tubi e casse o legati con nastro, libri di cartapecora, pergamena, carta di stracci, carta di pasta di legno, scritti a mano, stampati, libri sui pavimenti, in scatole, in piccole casse, su basse mensole traballanti costruite utilizzando i coperchi delle casse. In una grande caverna, i volumi erano disposti su due ripiani, uno all’altezza della cintola l’altro degli occhi, scavati nella parete lungo l’intera circonferenza. Quei ripiani risalivano a molto tempo addietro, spiegò Ikak; erano stati scavati da maz che vivevano lì quando il luogo era un piccolo umyazu e quella sala costituiva l’intera biblioteca. Quei maz avevano avuto il tempo e i mezzi per completare un lavoro simile. Adesso, loro potevano solo stendere fogli di plastica per proteggere i libri dalla polvere e dal contatto con la roccia viva, ammucchiarli o sistemarli alla meglio, cercare di ordinarli almeno un po’, e tenerli nascosti, tenerli al sicuro. Proteggerli, custodirli, e, quando c’era tempo, leggerli.
Ma nessuno in una vita avrebbe potuto leggere più di un frammento di quello che c’era lì, di quel labirinto incompleto di parole, di quell’immensa storia spezzata di un popolo e di un mondo attraverso i secoli, attraverso i millenni.
Odiedin si sedette sul pavimento di una caverna fiocamente illuminata e silenziosa, dove i libri partivano dall’ingresso in tante file, simili a cumuli di erba falciata, file scure, però, che si perdevano nell’oscurità. Si sedette sul pavimento di pietra, tra due file, raccolse un piccolo libro con una copertina di tela logora e lo tenne in grembo. Piegò il capo sul libro senza aprirlo. Lacrime gli rigarono le gote.
Erano liberi di andare nelle caverne biblioteca quando volevano. Nei giorni successivi, Sutty vi tornò più volte, vagando guidata dal raggio piccolo ma intenso di una lampada a olio, fermandosi qua e là a leggere. Aveva con sé il noter e con lo scanner copiò quello che leggeva, spesso interi libri che non aveva il tempo di leggere. Lesse i testi delle benedizioni, i protocolli delle cerimonie, ricette, prescrizioni per curare la febbre e per vivere a lungo, storie, leggende, annali, vite di maz famosi, vite di oscuri mercanti, testimonianze di gente vissuta migliaia di anni prima e pochi anni prima, racconti di viaggi, meditazioni di mistici, trattati di filosofia e di matematica, erbari, bestiari, anatomie, geometrie reali e metafisiche, mappe di Aka, mappe di mondi immaginari, storie di terre antiche, poesie. Tutte le poesie del mondo erano lì.
S’inginocchiò accanto a una cassa piena di carte e di libri logori fatti a mano, materiale recuperato da qualche piccolo umyazu, salvato dai bulldozer e dagli incendi, portato lassù percorrendo le vie impervie della Montagna perché fosse al sicuro, perché venisse conservato, perché narrasse. Alla luce della lampada sul pavimento di pietra, aprì un libro, un sillabario. Gli ideogrammi erano scritti in grande e senza qualificativi di aspetto, modo, numero, Elemento. Su una pagina, c’era un’incisione grossolana, l’immagine di un uomo che pescava da un ponte a schiena d’asino. LA MONTAGNA È LA MADRE DEL FIUME, dicevano gli ideogrammi sotto l’illustrazione.
Sutty rimaneva nelle caverne a leggere finché le parole dei morti, il silenzio assoluto, il freddo, il globo d’oscurità attorno a lei non diventavano troppo estranianti. Allora tornava alla luce del giorno e al suono delle voci dei vivi.
Adesso sapeva che tutto quello che avrebbe potuto conoscere della Narrazione sarebbe stato soltanto un minimo cenno o frammento di quanto c’era da sapere. Ma a lei stava bene così; era così e basta. L’importante era sapere che esisteva.
Una coppia di maz stava compilando un catalogo dei libri, usando la versione akana del noter di Sutty. Salivano alle caverne da vent’anni, lavorando al catalogo. Ne discussero con lei entusiasti, e lei promise di provare a collegare il suo noter al loro per duplicare e trasferire le informazioni.
Anche se i maz la trattavano sempre con cortesia e rispetto, la conversazione era perlopiù formale e spesso difficile. Dovevano parlare tutti in una lingua che non era la loro, il dovzano. Sebbene gli akani lo parlassero in pubblico quando erano "laggiù", non era la lingua in cui pensavano, e non era la lingua della Narrazione. Era la lingua del nemico. Era una barriera. Sutty si rese conto di essersi sentita molto più in sintonia con la gente di Okzat-Ozkat quando aveva imparato la lingua rangma. Parecchi maz della Biblioteca conoscevano l’hainiano, che veniva insegnato nelle università dell’Azienda come segno di vera istruzione. Non era di grande utilità, lì… tranne, forse, in una conversazione che Sutty ebbe con la giovane maz Unroy Kigno.
Uscirono insieme per godersi la luce del sole un’oretta, e per cancellare le impronte. Da quando l’elicottero si era avvicinato tanto alle caverne — non era mai successo che un velivolo giungesse così vicino — la gente della Biblioteca stava più attenta a cancellare le orme nella neve che avrebbero potuto guidare fino all’ingresso delle caverne un occhio indiscreto nel cielo. Sutty e Unroy avevano terminato il compito abbastanza piacevole di spargere tutt’intorno la neve leggera e asciutta con delle scope, e stavano riposando un attimo, sedute su dei massi accanto alla stalla dei minule.
«Cos’è la storia?» chiese d’un tratto Unroy, usando la parola hainiana. «Chi sono gli storici? Sei una storica, tu?»
«Gli hainiani dicono di sì» rispose Sutty, e iniziarono una lunga e intensa discussione linguistico-filosofica per cercare di stabilire se storia e Narrazione potessero essere intese come la stessa cosa, o cose simili, o del tutto dissimili; una discussione su cosa facessero gli storici, su cosa facessero i maz, e perché.
«Penso che storia e Narrazione siano la stessa cosa» disse infine Unroy. «Sono modi di trattenere e conservare cose sacre.»
«Cos’è la sacralità?»
«Ciò che è vero è sacro. Ciò che è costato sofferenza. Ciò che è bello.»
«Dunque la Narrazione cerca di trovare negli eventi la verità… o la sofferenza, o la bellezza?»
«Non c’è bisogno di cercare» replicò Unroy. «La sacralità esiste. Nella verità, nella sofferenza, nella bellezza. Quindi la narrazione di queste cose è sacra.»
Il suo compagno, Kigno, era in un campo di prigionia di Doy. Era stato arrestato e condannato per avere insegnato religione ateistica e dogmi antiscientifici reazionari. Unroy sapeva dov’era, in una enorme acciaieria che utilizzava come personale i prigionieri, ma non era possibile alcuna comunicazione.
«Ci sono centinaia di migliaia di persone nei centri di riabilitazione» spiegò Unroy a Sutty. «L’Azienda si procura così manodopera a buon mercato.»
«Che ne farete del vostro prigioniero?»
Unroy scosse la testa. «Vorrei che fosse rimasto ucciso come l’altro» disse. «È un problema che non sappiamo come risolvere.»
Sutty concordò, in un silenzio amaro.