Il Controllore era curato bene; parecchi maz erano guaritori di professione. L’avevano messo in una piccola tenda da solo, e lo tenevano al caldo, lo nutrivano. La sua tenda era in una grande caverna, tra sette o otto tende occupate da guide o stallieri dei minule. C’era sempre qualcuno là con occhi e orecchi aperti, come dicevano loro. In ogni caso, non c’era pericolo che tentasse di fuggire finché la distorsione alla schiena e le serie lesioni al ginocchio non fossero migliorate.
Odiedin lo visitava ogni giorno. Sutty non si era ancora decisa a farlo.
«Si chiama Yara» la informò Odiedin.
«Si chiama Controllore» replicò lei, sprezzante.
«Non più» fece Odiedin, sarcastico. «Ci ha seguiti senza essere autorizzato. Se torna a Dovza City, lo manderanno in un centro di riabilitazione.»
«Un campo di lavoro forzato? Perché?»
«I funzionari non devono trasgredire gli ordini o prendere iniziative non autorizzate.»
«Non era un elicottero dell’Azienda?»
Odiedin scosse la testa. «Era di proprietà del pilota. Lo usava per portare provviste agli scalatori nella Catena Meridionale. Yara l’ha noleggiato. Per cercarci.»
«Che strano» commentò Sutty. «Seguiva me, allora?»
«Gli servivi come guida.»
«Lo temevo.»
«Io no.» Odiedin sospirò. «L’Azienda è così grande, e il suo apparato così goffo, che noi miseri provinciali quassù non siamo degni di essere presi in considerazione. Sgusciamo tra le maglie della rete. O l’abbiamo fatto per tanti anni. Quindi, non mi preoccupavo. Ma lui non era la polizia dell’Azienda. Era un uomo solo. Un fanatico.»
«Fanatico?» Sutty rise. «Crede agli slogan? Ama l’Azienda?»
«Ci odia. Odia i maz, la Narrazione. Ti teme.»
«Come straniera?»
«Pensa che convincerai l’Ekumene a schierarsi coi maz contro l’Azienda.»
«Cosa glielo fa pensare?»
«Non lo so. È un uomo strano. Credo che dovresti parlare con lui.»
«A che scopo?»
«Per sentire quello che ha da dire» rispose Odiedin.
Sutty rimandò, ma la coscienza non le dava tregua. Odiedin non era un dotto, non era un saggio come quei maz delle pianure, però aveva mente limpida e cuore sereno. Nel lungo viaggio, Sutty aveva imparato a fidarsi completamente di lui, e quando l’aveva visto piangere sui libri della Biblioteca si era accorta di amarlo. Voleva fare quello che Odiedin le aveva chiesto, anche se si trattava di sentire quello che aveva da dire il Controllore.
Forse anche lei avrebbe potuto dire al Controllore un paio di cose che lui doveva sentire. In ogni caso, prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo. E affrontare il problema: che fare di lui? E il problema di essere responsabile della presenza del Controllore lì.
Il giorno successivo, prima della cena, andò nella grande caverna dove l’avevano sistemato. Un paio di stallieri di minule stavano giocando d’azzardo, lanciando bastoncini contrassegnati, alla luce di una lanterna. Sulla parete interna della caverna, una curva concavità nera alta dieci metri, gli abitanti delle grotte nei secoli passati avevano inciso la figura dell’Albero: il tronco, i due rami, i cinque lobi del fogliame. Dei frammenti di lamina d’oro luccicavano ancora nelle linee del disegno, e pezzi di cristallo, giaietto e lunaria, brillavano tra l’intarsio delle foglie. Gli occhi di Sutty si erano abituati all’oscurità, adesso. Il bagliore di una piccola luce elettrica in una tenda vicina alla parete nera sembrava vivido come il sole.
«Il dovzano?» chiese ai giocatori. Uno di loro le indicò col mento la tenda illuminata.
Il lembo d’ingresso era chiuso. Sutty esitò alcuni istanti all’esterno, poi chiamò: «Controllore?».
La tenda si aprì. Lei guardò dentro, circospetta. L’interno, angusto, era caldo e luminoso. Avevano dato al ferito un materassino con una specie di schienale inclinato, perché non stesse completamente disteso. La cordicella del lembo di apertura, una lampada elettrica a manovella, una stufetta a olio, una bottiglia d’acqua e un piccolo noter erano a portata di mano del Controllore.
Era rimasto seriamente contuso nello schianto, e le contusioni erano ancora livide: il lato destro della faccia era bluastro e verdognolo, l’occhio destro era gonfio e semichiuso, su entrambe le braccia si vedevano vaste chiazze nerastre e marroni. Due dita della sinistra erano state steccate. Ma gli occhi di Sutty si erano posati sul piccolo apparecchio, sul noter.
Entrò nella tenda rannicchiandosi, si inginocchiò nello spazio libero, prese il noter e lo osservò.
«Non trasmette» disse l’uomo.
«Questo lo dici tu» replicò lei, cominciando a giocare col noter per saggiarne le capacità. Poco dopo, disse ironica: «Scusa se apro i tuoi documenti privati, Controllore. Non mi interessano, ma devo vedere cosa sa fare questo aggeggio».
Lui non disse nulla.
L’apparecchio era un registratore-noter, un modello piuttosto vistoso ma con parecchi gravi difetti di progettazione, come gran parte della tecnologia akana… robaccia malamente copiata, pensò Sutty. Non era in grado di trasmettere o di ricevere. Lo posò accanto al prigioniero.
Ora che si era tranquillizzata, era consapevole dell’imbarazzo e dell’intenso disagio che provava, chiusa in uno spazio così angusto con quell’individuo. Voleva mantenere il più possibile le distanze da lui. L’unico modo per riuscirci era usando le parole.
«Cosa stavi cercando di fare?»
«Seguirti.»
«Il tuo governo ti aveva ordinato di non farlo.»
Dopo una pausa, lui disse: «Non potevo accettarlo».
«Dunque la rotellina è più saggia dell’ingranaggio?»
Lui non disse nulla. Non si era mosso da quando aveva aperto la tenda. La rigidità del suo corpo probabilmente significava sofferenza, constatò Sutty, insensibile.
«Se non ti fossi schiantato, cos’avresti fatto? Saresti tornato in volo a Dovza City e avresti riferito… cosa? Di avere visto delle caverne?»
Lui non disse nulla.
«Cosa sai di questo posto?»
Mentre gli rivolgeva la domanda, Sutty si rese conto che il Controllore non aveva visto che quella caverna, qualche stalliere, qualche maz. Non doveva sapere nient’altro. Avrebbero potuto bendargli gli occhi… no, probabilmente non era necessario neppure quello: bastava farlo uscire di lì, portarlo via non appena fosse stato possibile spostarlo. Aveva visto solo un rifugio dove i viaggiatori si fermavano a riposare. Non aveva nulla da denunciare.
«Questo è il Grembo del Silong» disse il Controllore. «L’ultima Biblioteca.»
«Cosa te lo fa pensare?» sbottò Sutty, rabbiosa, delusa.
«Stavi venendo qui. L’Ufficio della Purezza Etica cerca questo luogo da parecchio tempo. Il posto dove loro nascondono i libri. È questo.»
«Chi sono "loro", Controllore?»
«I nemici dello stato.»
«Oh, Rama!» disse Sutty. Si sedette, il più lontano possibile da lui, stringendosi le ginocchia. Parlò adagio, fermandosi dopo ogni frase. «Voi avete imparato tutte le cose sbagliate che abbiamo fatto, e nemmeno una cosa giusta. Vorrei che non fossimo mai venuti su Aka. Ma dato che con la nostra stupida superbia intellettuale l’abbiamo fatto, avremmo dovuto negarvi l’informazione che avete chiesto, o insegnarvi la storia terrestre. Naturalmente voi non avreste ascoltato. Non credete nella storia. Avete gettato via la vostra, come spazzatura.»
«Era spazzatura.»
La pelle bruna del Controllore era grigiastra dove non era livida. La voce era rauca e ostinata. "Quest’uomo è ferito e inerme" pensò Sutty, senza provare compassione né vergogna.
«So chi sei» disse. «Sei il mio nemico. Il vero credente. L’uomo giusto con la missione giusta. Quello che imprigiona la gente perché legge, quello che brucia i libri. Che perseguita chi fa gli esercizi fisici nel modo sbagliato. Che butta i farmaci antichi e ci piscia sopra. Che preme il pulsante che invia gli aerei telecomandati a sganciare le bombe. E si nasconde dentro un bunker rimanendo illeso. Protetto da dio. O dallo stato. O da qualunque menzogna usi per nascondere la sua invidia, il suo egoismo, la sua vigliaccheria e la brama di potere. Ci ho messo un po’ a inquadrarti, però. Tu mi hai inquadrata subito. Sapevi che ero il tuo nemico. Che ero malvagia. Come l’hai capito?»