Otto
La sua tenda era illuminata solo dal tenue bagliore della stufetta. Quando Sutty entrò, il Controllore cominciò a girare la piccola manovella che azionava la lampada. L’apparecchio impiegò parecchio tempo ad accendersi, ed emise poi una fioca luminosità.
Sutty si sedette a gambe incrociate nella metà vuota della tenda. A quanto poteva vedere, la faccia del prigioniero non era più gonfia, ma non aveva ripreso colore. Lo schienale del giaciglio era sollevato per consentirgli di sedere col busto quasi in posizione eretta.
«Stai qua al buio, notte e giorno» esordì Sutty. «Dev’essere insolito. Deprivazione sensoriale. Come passi il tempo?» Udì l’asprezza gelida della propria voce.
«Dormo» rispose lui. «Penso.»
«Dunque esisti… Reciti slogan? Avanti, in alto, sempre più in alto? Il pensiero reazionario è il nemico sconfitto?»
Lui non disse nulla.
Vicino al materassino, c’era un libro. Sutty lo prese. Era un libro scolastico, una raccolta di poesie, storie, vite esemplari e via dicendo, per bambini di dieci anni, o giù di lì. Le ci volle qualche istante per rendersi conto che era scritto in ideogrammi, non nel nuovo alfabeto. Si era quasi dimenticata che nel mondo del Controllore, nel mondo moderno di Aka, esisteva solo l’alfabeto, gli ideogrammi erano banditi, illegali, in disuso, dimenticati.
«Sai leggerlo?» domandò, sorpresa e piuttosto spaventata.
«Me l’ha dato Odiedin Manma.»
«Sai leggerlo?»
«Lentamente.»
«Quand’è che hai imparato a leggere la putrida scrittura primitiva antiscientifica, Controllore?»
«Quand’ero bambino.»
«Chi ti ha insegnato?»
«Le persone con cui vivevo.»
«Chi erano?»
«I genitori di mia madre.»
Le sue risposte giungevano sempre dopo una pausa, e a voce bassa, quasi biascicate, parevano le risposte di uno scolaro umiliato da un esaminatore incalzante. Sutty fu sopraffatta da una vergogna improvvisa. Si sentì le gote in fiamme, la testa che le girava.
Ancora sbagliato. Peggio che sbagliato.
Dopo un lungo silenzio, disse: «Ti chiedo scusa per come ti ho parlato. Non mi è piaciuto il tuo comportamento nei miei confronti, sul battello e a Okzat-Ozkat. Sono arrivata a odiarti quando ti ho ritenuto responsabile della distruzione dell’erbario di maz Sotyu Ang, il lavoro di una vita, la sua vita. E di avere braccato i miei amici. E braccato me. Odio il fanatismo in cui credi. Ma cercherò di non odiarti».
«Perché?» chiese lui. La sua voce era fredda, come la ricordava Sutty.
«L’odio divora chi odia» rispose Sutty, citando un passo familiare della Narrazione.
Il Controllore sedeva impassibile, teso come sempre. Lei, invece, cominciò a rilassarsi. La sua confessione aveva dissolto non solo il senso di vergogna ma pure l’oppressione piena di risentimento che provava davanti a quell’individuo. Assunse con le gambe una posizione più comoda, un semiloto, drizzò la schiena. Adesso poteva guardarlo bene, invece di lanciargli occhiate furtive. Osservò per un po’ quella faccia rigida. Il Controllore non voleva o non poteva dire nulla, ma lei sì.
«Vogliono che parli con te» disse. «Vogliono che ti racconti com’è la vita sulla Terra. Le cose brutte e dolorose che troverete alla fine della Marcia verso le Stelle. Così forse comincerai a porti la domanda fatidica: so quello che sto facendo? Ma a te forse non interessa… E sono anche curiosa di sapere com’è la vita di uno come te. Cos’è che fa di un uomo un Controllore. Vuoi dirmelo? Perché vivevi con i nonni? Perché hai imparato a leggere la vecchia scrittura? Sei sulla quarantina, mi pare. Era già proibita quando eri bambino, no?»
Lui annuì. Sutty aveva posato il libro. Il Controllore lo prese, sembrò studiare i tratti armoniosi della calligrafia del titolo sulla copertina: FRUTTI GEMME DELL’ALBERO DEL SAPERE.
«Dimmi» lo sollecitò Sutty. «Dove sei nato?»
«A Bolov Yeda. Sulla costa occidentale.»
«E ti hanno chiamato Yara… "forte"…»
Lui scosse la testa. «Mi hanno chiamato Azyaru.»
Azya Aru. Sutty aveva letto di loro proprio un paio di giorni prima, in una Storia delle Terre Occidentali che Unroy le aveva mostrato durante una delle loro scorrerie nella Biblioteca. Una coppia di maz di due secoli addietro, Azya e Aru erano stati i principali fondatori e apostoli della Narrazione in Dovza. I primi maz tirannici. Eroi della cultura dovzana, fino alla secolarizzazione. Sotto l’Azienda, erano diventati senza dubbio personaggi malvagi, da dimenticare, cancellare.
«I tuoi genitori erano maz, allora?»
«I miei nonni.» Il Controllore teneva il libro come se fosse un talismano. «La prima cosa che ricordo è mio nonno che mi insegna a scrivere la parola "albero".» Il suo dito sulla copertina del libro tracciò i due tratti dell’ideogramma. «Eravamo seduti sulla veranda, all’ombra, da là si vedeva il mare. I pescherecci stavano rientrando. Bolov Yeda è in collina, sopra una baia. La più grande città della costa. I miei nonni avevano una bella casa. C’era un rampicante che cresceva sul portico, fino al tetto, con un tronco grosso e fiori gialli. Ogni giorno, in casa, loro facevano la Narrazione. Di sera, andavano all’umyazu.»
Aveva usato il pronome proibito lui/lei/loro. Non se n’era accorto, rifletté Sutty. La voce del Controllore era diventata sommessa, roca, tranquilla.
«I miei genitori erano insegnanti. Insegnavano la nuova scrittura nella scuola dell’Azienda. Io l’ho imparata, ma preferivo quella vecchia. Mi interessavano la scrittura, i libri. Le cose che mi insegnavano i miei nonni. Loro pensavano che fossi destinato a diventare un maz. La nonna diceva: "Oh, Kiem, lascia che il bambino vada a giocare! ". Ma il nonno voleva che rimanessi in casa a imparare qualche altro carattere, e io volevo sempre accontentarlo. Migliorare… La nonna mi insegnava le cose parlate, le cose che i bambini imparavano della Narrazione. Ma io preferivo la scrittura. Potevo renderla bellissima. Conservarla. Le parole parlate volavano via come il vento, e bisognava sempre ripeterle per tenerle vive. Ma lo scritto rimaneva, e si poteva sempre migliorarlo.»
«Così sei andato a vivere con i nonni, a studiare con loro?»
Lui rispose con la stessa pacatezza, con quella calma quasi sognante. «Quando ero piccolo, vivevamo là tutti insieme. Poi mio padre diventò amministratore scolastico e mia madre entrò a far parte del Ministero dell’Informazione. Furono trasferiti a Tamble, e poi a Dovza City. Mia madre doveva viaggiare parecchio. Fecero carriera in fretta nell’Azienda. Erano funzionari preziosi. Molto attivi. I nonni dissero che per me sarebbe stato meglio restare da loro, mentre i miei genitori erano sempre in giro e lavoravano tanto. Così rimasi con loro.»
«E tu volevi rimanere con loro?»
«Oh, sì» rispose lui, con assoluta franchezza. «Ero felice.»
La parola sembrò echeggiargli nella mente, scuotere la tranquillità con cui stava parlando. Distolse lo sguardo, un movimento improvviso che ricordò chiaramente a Sutty l’incontro nella strada di Okzat-Ozkat, quando lui le si era rivolto rabbioso e supplichevole, dicendole: «Non tradirci!».
Rimasero seduti un po’ senza parlare. Nella Caverna dell’Albero nessun altro si muoveva o stava parlando. Silenzio profondo nel Grembo del Silong.
«Sono cresciuta in un villaggio» disse Sutty. «Con mio zio e mia zia. O meglio, prozio e prozia. Zio Hurree era magro e molto scuro di carnagione, con capelli bianchi ispidi e sopracciglia altrettanto bianche e ispide… sopracciglia terribili. Quando ero piccola, pensavo che quelle sopracciglia sprizzassero lampi ogni volta che le aggrottava. Zietta era una cuoca e un’organizzatrice fantastica. Sapeva gestire qualsiasi situazione. Ho imparato a cucinare prima di imparare a leggere. Ma lo zio mi ha insegnato, alla fine. Era stato professore all’università di Calcutta. Una grande città della mia parte della Terra. Insegnava letteratura. Avevamo cinque stanze nella casa al villaggio, ed erano tutte piene di libri, tranne la cucina. Zietta non voleva libri in cucina. Nella mia stanza ce n’erano mucchi dappertutto, lungo le pareti, sotto il letto e sotto il tavolino. Quando ho visto le caverne della Biblioteca, qui, ho pensato subito alla mia camera a casa.»