«Tuo zio insegnava nel villaggio?»
«No. Si era nascosto, là. Ci eravamo nascosti. I miei genitori si erano nascosti in un altro posto. Si cercava di non attirare l’attenzione. Era scoppiata una specie di rivoluzione. Come la vostra, qui, ma al contrario. Gente che… Ma preferisco ascoltarti invece di parlare. Raccontami cos’è successo. Hai dovuto lasciare i tuoi nonni? Quanti anni avevi?»
«Undici.»
Sutty ascoltò. Il Controllore parlò.
«Anche i miei nonni erano attivi» disse. Il tono adesso era greve, penoso, tuttavia non sembrava restio a raccontare. «Ma non come fedeli produttori-consumatori. Erano capi di una banda di attivisti reazionari clandestini. Fomentavano attività di culto e insegnavano l’antiscienza. Io non capivo. Mi portavano a riunioni organizzate da loro. Non sapevo che fossero riunioni illegali. L’umyazu era chiuso, ma loro non mi avevano detto che l’aveva chiuso la polizia. Non mi mandavano alla scuola dell’Azienda. Mi tenevano in casa e mi insegnavano solo superstizione e moralità deviante. Alla fine, mio padre si rese conto di quello che stavano facendo. Lui e mia madre si erano separati. Non mi vedeva da due anni, ma mi mandò a prendere. Venne un uomo, di notte. Sentii mia nonna parlare a voce alta, gridare quasi, rabbiosa. Non l’avevo mai sentita parlare così. Mi alzai e andai nel soggiorno. Il nonno era seduto, immobile, non mi guardò, non disse nulla. La nonna e uno sconosciuto erano vicini al tavolo, una di fronte all’altro. Guardarono me, poi l’uomo guardò lei. La nonna disse: "Va’ a vestirti, Azyaru, tuo padre vuole che tu vada da lui". Io andai a vestirmi. Quando tornai in soggiorno, erano esattamente come li aveva lasciati: il nonno sedeva come un vecchio sordo e cieco, lo sguardo fisso nel vuoto, e la nonna era in piedi con i pugni stretti sul tavolo, di fronte a quell’uomo. Io cominciai a piangere, dissi che non volevo andar via, che volevo rimanere là. Allora la nonna mi venne vicino e mi prese per le spalle, ma mi spinse, mi spinse verso l’uomo. Lui disse: "Andiamo", e la nonna disse: "Va’, Azyaru!", e io… andai con lo sconosciuto.»
«Dove?» chiese Sutty, in un sussurro.
«Da mio padre, a Dovza City. Andai a scuola là.» Un lungo silenzio. Poi il Controllore chiese: «Parlami… del tuo villaggio. Perché vi nascondevate?».
«Quel che è giusto è giusto» annuì Sutty. «Ma è una storia lunga.»
«Tutte le storie sono lunghe» mormorò lui. Il Fecondatore aveva detto qualcosa del genere, una volta: «Le storie corte sono solo pezzi di quella lunga…».
«La cosa difficile da spiegare è il concetto di dio, nel mio mondo.»
«Conosco dio» fece Yara.
Quelle parole la fecero sorridere. Per un attimo, Sutty si rilassò. «Ne sono certa. Ma quello che potrebbe essere difficile da capire, qui, è cos’è dio, là. Qui, in fondo, è poco più di una parola. Nel vostro teismo di stato, sembra che significhi "ciò che è bene", "ciò che è giusto". È così?»
«Dio è Ragione, sì» rispose lui, piuttosto incerto.
«Be’, sulla Terra, da migliaia di anni è una parola importantissima, per molta gente. E di solito non si riferisce tanto a ciò che è conforme alla ragione quanto invece a ciò che è misterioso, che non si può comprendere. Quindi esistono svariate idee di dio. Secondo una di tali idee, per esempio, dio è un essere che ha creato ogni cosa ed è responsabile di tutto ciò che esiste e accade. Una specie di Azienda eterna universale.»
Yara sembrava attento ma perplesso.
«Dove sono cresciuta io, nel villaggio, conoscevamo quel tipo di dio, ma ne avevamo molti altri tipi. Dèi locali. Tantissimi. In realtà, però, erano tutti uno, lo stesso. Ce n’erano alcuni molto importanti, ma da piccola non è che sapessi granché degli dèi. Sapevo qualcosa solo per via del mio nome. Zietta mi aveva spiegato il mio nome, una volta. Le avevo chiesto: "Perché sono Sutty?", e lei mi aveva detto: "Sutty è la moglie di dio". Allora le avevo chiesto: "Sono la moglie di Ganesh?", perché era il dio che conoscevo meglio, e mi piaceva. Ma lei mi aveva detto: "No, la moglie di Shiva". Di Shiva, allora, sapevo solo che aveva per amico un bellissimo toro bianco e lunghi capelli sporchi ed era il più grande danzatore dell’universo. Con la sua danza crea il mondo e lo distrugge. È molto strano e brutto e digiuna sempre. Zietta mi spiegò che Sutty lo amava tanto che lo sposò contro il volere di suo padre. Sapevo che a quell’epoca non era facile per una ragazza fare una cosa del genere, così Sutty mi sembrava davvero coraggiosa. Poi però Zietta mi disse che Sutty era tornata a trovare suo padre. E suo padre parlò male di Shiva e fu molto scortese con lui. E Sutty si arrabbiò e si vergognò a tal punto che morì. Non fece nulla, morì e basta. Da allora, le mogli fedeli che muoiono quando muoiono i loro mariti sono chiamate come lei. Be’, quando Zietta mi raccontò questo, io dissi: "Perché mi avete messo il nome di una donna così stupida e sciocca?".
«E lo zio, che stava ascoltando, disse: "Perché Sati è Shiva, e Shiva è Sati. Tu sei l’amante e l’afflitto. Tu sei la collera. Tu sei la danza".
«Così decisi che se dovevo essere Sutty, mi andava benissimo, a patto di poter essere anche Shiva…»
Guardò Yara. Era assorto e visibilmente sconcertato.
«Be’, lasciamo perdere questo. È complicatissimo. Comunque, quando si hanno molti dèi, forse è più facile di quando ce n’è uno solo. Avevamo un dio di pietra tra le radici di un grosso albero vicino alla strada. La gente del villaggio dipingeva la pietra di rosso e le offriva del burro, per soddisfare la divinità, e per soddisfare se stessa. Zietta metteva ogni giorno delle calendule ai piedi di Ganesh. Era un piccolo dio di bronzo con un naso da animale, nella stanza sul retro. Era il figlio di Shiva, in realtà. Molto più buono di Shiva. Zietta gli recitava delle cose e gli cantava delle canzoni. Faceva la puja, le devozioni. Io l’aiutavo a fare la puja. Sapevo cantare qualche canzone. Mi piacevano l’incenso e le calendule… Ma le persone di cui devo parlarti, quelle da cui ci nascondevamo, non avevano nessun piccolo dio. Li odiavano. Loro ne avevano uno solo, grande. Un grande dio tirannico. Tutto quello che, secondo loro, dio diceva di fare era giusto. Chi non faceva quello che, secondo loro, dio diceva di fare sbagliava. Molta gente ci credeva. Si chiamavano Unisti. "Un Dio, una Verità, una Terra." E loro… hanno combinato un sacco di guai.»
Quelle parole le sembrarono sciocche, puerili, parole da manualetto elementare per anni di sofferenza.
«Vedi, la mia gente, e mi riferisco a tutti noi sulla Terra, aveva causato danni notevoli al nostro mondo, aveva combattuto per contenderselo, l’aveva sfruttato, devastato. C’erano state calamità, carestie e miseria per troppo tempo. La gente voleva conforto e aiuto. Voleva credere di fare qualcosa di giusto. Seguendo gli Unisti, suppongo, poteva convincersi di non fare mai nulla di sbagliato.»
Yara annuì. Quello l’aveva capito.
«I Padri unisti sostenevano che la causa di tanta sofferenza fosse quella che chiamavano "conoscenza maligna". Se non ci fosse stata conoscenza maligna, la gente sarebbe stata buona. La conoscenza empia andava distrutta per fare posto alla sacra fede. Erano contrari alla scienza, a tutto il sapere, a ogni cosa che non fosse nei loro libri.»
«Come i maz.»
«No, no. Secondo me, ti sbagli, Yara. Non mi pare che la Narrazione escluda qualche conoscenza, o definisca qualche conoscenza maligna, o empia. Non comprende quello che Aka ha imparato nell’ultimo secolo dal contatto con altre civiltà, questo è vero. Ma penso che sia solo perché i maz non hanno avuto il tempo di cominciare a inserire le nuove informazioni nella Narrazione prima che lo Stato Azienda si affermasse come istituzione sociale centrale. Lo Stato Azienda ha sostituito i maz con i burocrati, e poi ha criminalizzato la Narrazione. L’ha costretta alla clandestinità, impedendo che si sviluppasse e crescesse. L’ha chiamata "conoscenza empia", in pratica. Quello che non capisco è perché l’Azienda abbia ritenuto che fosse necessaria una simile violenza, che fosse necessario un uso così brutale del potere.»