Ore 09.35

Dall’elicottero, il mondo sottostante appariva come un negativo fotografico o uno studio sui contrasti: bianchi e neri, neve e roccia, cime avvolte dalla nebbia e gole nell’ombra. Le creste di ghiaccio e i gelidi strapiombi rilanciavano la luce del mattino in strali lancinanti, un riverbero aereo che costituiva una minaccia costante per gli occhi.

Lisa batteva le palpebre per proteggersi dal bagliore. Chi poteva vivere così lontano da tutto, in un ambiente tanto spietato? Perché l’umanità trovava sempre luoghi così inospitali da conquistare, quando aveva a disposizione modi di vivere molto più facili?

D’altra parte, quello era il genere di domande che le rivolgeva sua madre. Perché cercare realtà così estreme? Cinque anni per mare su una nave di ricerca, poi un altro anno passato ad allenarsi e abituarsi ai rigori dell’alta montagna e infine in Nepal, a prepararsi per conquistare l’Everest. Perché tutti quei rischi, quando c’era una vita più facile a portata di mano?

Lisa aveva sempre dato una risposta semplice: il gusto della sfida. Non aveva forse risposto in modo simile anche George Mallory, la leggenda dell’alpinismo, quando gli avevano chiesto perché scalasse l’Everest? Perché c’è. Naturalmente, dietro quella celebre frase, c’era un’altra verità: Mallory l’aveva pronunciata per esasperazione, rispondendo a un giornalista che lo tormentava. Anche la risposta di Lisa alle domande di sua madre era una reazione istintiva? Che cosa ci faceva davvero lassù? La vita quotidiana comportava già sfide a sufficienza: guadagnarsi da vivere, risparmiare per la pensione, trovare qualcuno da amare, sopravvivere alle perdite, crescere dei figli.

Lisa trasalì di fronte a quei pensieri, riconoscendovi una punta d’ansia e rendendosi conto di ciò che poteva significare. Può essere che io faccia una vita al limite per evitare di vivere una vita reale? È forse per questo che così tanti uomini hanno attraversato la mia vita senza mai rimanere?

Ed eccola lì. Trentatreenne, sola, senza prospettive, soltanto la ricerca per compagna, e un sacco a pelo a una piazza per letto. Forse avrebbe dovuto semplicemente radersi la testa e trasferirsi in uno di quei monasteri in cima alle montagne.

L’elicottero sobbalzò e puntò verso l’alto.

Lisa si concentrò di nuovo sul presente.

Trattenne il fiato mentre l’elicottero volava radente sopra una cresta affilata, coi pattini che schivavano di un soffio la lingua di ghiaccio battuta dal vento, per poi tuffarsi nella gola successiva.

Lisa dovette forzare le sue dita a mollare la presa sul bracciolo del sedile. All’improvviso una villetta con tre stanze da letto e due bambini non suonava poi così noiosa.

Accanto a lei, Ang Gelu si sporse in avanti tra il pilota e il soldato e indicò un punto sotto di loro. Il rombo dei rotori inghiottì le sue parole.

Lisa premette la guancia contro il finestrino per guardare fuori. Sentì il bacio freddo della curva di plexiglas. Individuò la prima macchia di colore là sotto: tetti di tegole rosse. Un piccolo agglomerato di otto casette di pietra, abbarbicate su un altopiano e incorniciate da cime di seimila metri su tre lati e da uno strapiombo verticale sul quarto.

Il monastero di Temp Och.

L’elicottero scese precipitosamente verso gli edifici. Lisa notò un campo di patate a terrazza, da un lato, e qualche recinto e granaio sparso, dall’altro. Nessun movimento. Nessuno uscì a salutare i rumorosi nuovi arrivati.

Cosa ancora più inquietante, Lisa vide un gruppo di capre e pecore bharal blu radunate in recinti chiusi. Nemmeno loro si muovevano. Invece di essere spaventate dall’elicottero che scendeva di quota, erano stese a terra scomposte, le zampe torte, il collo piegato in modo innaturale.

Anche Ang Gelu le notò e si afflosciò sul sedile. I loro sguardi s’incrociarono. Che cosa era successo? Intanto, sul sedile anteriore era in corso una discussione di qualche tipo. Era evidente che il pilota non voleva atterrare. Il soldato ebbe la meglio, gli bastò poggiare un palmo sul calcio del fucile. Il pilota aggrottò le sopracciglia e strinse ancora di più la maschera d’ossigeno che gli copriva naso e bocca. Non perché gli servisse una fonte d’ossigeno aggiuntiva, ma per paura del contagio.

In ogni caso, obbedì agli ordini del militare. Stritolò i comandi e fece abbassare il velivolo verso terra. Puntò il più lontano possibile dai recinti degli animali, scendendo verso il margine dei campi di patate del monastero.

La piantagione era simile a un anfiteatro a più livelli, con file di minuscoli germogli verdi. La coltivazione di patate ad alta quota era stata introdotta dai britannici all’inizio del XIX secolo, diventando uno dei principali mezzi di sostentamento della zona.

Con un colpo stridente, i pattini dell’elicottero colpirono il suolo roccioso, schiacciando una fila di piantine. I germogli circostanti si dibattevano e ondeggiavano nel vortice d’aria creato dai rotori.

Nessuno si fece vivo in seguito al loro arrivo. Lisa rivide nella mente l’immagine delle bestie morte. C’era ancora qualcuno da salvare? Che cosa era successo? Passò in rassegna diverse eziologie e varie modalità di esposizione: ingestione, inalazione, contatto. O forse era qualcosa di contagioso? Le servivano maggiori informazioni.

«Forse lei dovrebbe restare qui», le disse Ang Gelu, mentre si slacciava la cintura di sicurezza. «Noi andiamo a dare un’occhiata al monastero.»

Lisa afferrò lo zaino con l’attrezzatura medica, scuotendo la testa. «Non ho paura dei malati. E ci potrebbero essere domande cui solo io so rispondere.»

Ang Gelu annuì, parlò in modo concitato col militare e aprì il portellone posteriore. Scese e si voltò per porgere una mano a Lisa.

Nell’abitacolo riscaldato s’insinuò un vento gelido, facilitato anche dal movimento dei rotori. Mentre sollevava il cappuccio del parka, Lisa si rese conto che la corrente glaciale si portava via gli ultimi residui di ossigeno disponibili a quell’altitudine. O forse era la paura. Aveva pronunciato parole più coraggiose di lei.

Prese la mano del monaco, sentendone la forza e il calore anche attraverso gli spessi guanti di lana. Lui non si curò neanche di coprirsi il capo rasato, sembrava che non si accorgesse nemmeno del freddo pungente.

Lisa scese a terra, ma rimase ferma, china sotto le pale rotanti dell’elicottero. Il militare fu l’ultimo a scendere. Il pilota restò nell’abitacolo. Aveva fatto atterrare l’elicottero, come gli era stato ordinato, ma non si arrischiava certo ad abbandonare la cabina.

Ang Gelu chiuse il portellone con un colpo deciso e i tre attraversarono di gran lena il campo di patate, dirigendosi verso l’assembramento di costruzioni di pietra. Visti da terra, gli alloggi coi tetti rossi erano più alti di quanto sembrassero dall’alto. La struttura centrale era di tre piani, con in cima un tetto in stile pagoda. Tutti gli edifici avevano decorazioni elaborate Porte e finestre erano incorniciate da affreschi con le sfumature dell’arcobaleno e gli architravi erano illuminati da foglie d’oro, mentre dagli angoli dei tetti spuntavano gli sguardi maliziosi e i ghigni beffardi di draghi e uccelli mitici scolpiti nella pietra. Le varie costruzioni erano collegate da portici, che creavano piccoli cortili e spazi appartati. Sui pali dell’intera struttura erano montate ruote di preghiera in legno, con scritte intagliate in caratteri antichi, e dai tetti pendevano bandierine di preghiera multicolore, sferzate dalle folate intermittenti.

Sembrava un luogo da fiaba, una sorta di Shangri-La d’alta quota, eppure Lisa si accorse di aver rallentato il passo. Non si muoveva nulla. Quasi tutte le persiane erano chiuse. Il silenzio era pesante.

In più c’era quell’odore caratteristico nell’aria. Pur essendo prevalentemente una ricercatrice, Lisa aveva avuto la sua dose di morti durante il praticantato in ospedale. Il fetido miasma della putrefazione non si disperdeva tanto facilmente. Pregò che provenisse soltanto dalle bestie all’altra estremità del padiglione. Tuttavia, data l’assenza di qualsiasi reazione al loro arrivo, non aveva grandi speranze.


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