Ang Gelu faceva strada, affiancato dal militare. Lisa fu costretta ad accelerare per seguirli. Passarono tra due edifici e si diressero verso l’imponente struttura centrale.
Nel cortile principale c’erano attrezzi agricoli sparsi a casaccio, come se fossero stati abbandonati in tutta fretta. Un carretto legato a uno yak era rovesciato su un lato. Anche la bestia era morta, riversa su un fianco, con la pancia gonfia e dilatata. L’animale aveva gli occhi fissi e lattiginosi, la lingua protesa e ingrossata tra le labbra nere e gonfie.
Lisa notò l’assenza di mosche o altri piccoli opportunisti. C’erano mosche a quella quota? Non ne era certa. Scrutò il cielo. Nemmeno un uccello, nessun rumore, a parte il sibilo sommesso del vento.
«Da questa parte», disse Ang Gelu.
Il monaco si diresse verso una serie di alte porte che conducevano alla residenza centrale, che era evidentemente il tempio principale. Controllò il catenaccio. Non era chiuso a chiave. Lo aprì, facendo gemere i cardini.
Oltre la soglia brillava debolmente il primo segno di vita. A entrambi i lati della porta ardevano grandi lampade cilindriche, con una dozzina di stoppini accesi. Erano alimentate con burro di yak. All’interno, il fetore era peggio che fuori. Non era un buon presagio.
Persino il soldato esitava a superare la soglia, passando il fucile automatico da una spalla all’altra, come per rassicurarsi. Il monaco entrò con passo deciso e pronunciò a gran voce un saluto, che echeggiò nella sala.
Lisa entrò dopo di lui. Il soldato rimase di guardia sulla soglia.
L’interno del tempio era illuminato da qualche altra lampada. Lungo le due pareti laterali erano collocate imponenti ruote di preghiera. Accanto a una statua di Budda in teak, alta quasi due metri e mezzo, erano accese candele e bastoncini d’incenso al profumo di ginepro. Alle spalle del Budda erano allineate altre divinità del pantheon.
Quando i suoi occhi cominciarono ad abituarsi all’oscurità degli interni, Lisa notò i numerosi affreschi e gli intricati mandala intarsiati nel legno; in quella luce tremula, le scene che raffiguravano apparivano demoniache. Guardò in alto. C’erano diversi ordini di travi, alti due piani, che sostenevano un grappolo di lampade pensili, tutte fredde e buie.
Ang Gelu chiamò ancora.
Da qualche parte, sopra le loro teste, si sentì uno scricchiolio.
A quel rumore improvviso si bloccarono tutti quanti. Il soldato accese una torcia elettrica e la puntò verso l’alto, muovendola avanti e indietro. Ci fu un agitarsi e un sussultare di ombre, ma nient’altro.
Sentirono di nuovo lo scricchiolio dell’assito. Qualcuno si muoveva al piano superiore. Sebbene fosse un chiaro segnale di vita, a Lisa fece venire la pelle d’oca.
«Sopra il tempio c’è una stanza privata per la meditazione», spiegò Ang Gelu. «Ci si arriva dalle scale sul retro. Vado a controllare, voi rimanete qui.»
Lisa voleva obbedire, ma sentiva il peso sia dello zaino sia della sua responsabilità. Le bestie non erano morte per mano d’uomo, ne era certa. Se c’era un sopravvissuto, qualcuno che potesse raccontare che cosa era successo, lei era la persona più adatta per incontrarlo.
«Vengo anch’io», annunciò con voce ferma, ma lasciò che fosse Ang Gelu a fare strada.
Il monaco attraversò la sala, girò attorno alla statua del Budda e raggiunse una porta ad arco, verso il retro del tempio. Proseguì scostando un drappeggio di broccato con ricami dorati. C’era un piccolo corridoio che si addentrava nella struttura. Le persiane alle finestre lasciavano trapelare soltanto qualche raggio di luce nell’oscurità polverosa, illuminando una parete imbiancata. Le macchie e gli schizzi rosso cremisi non richiedevano ulteriori indagini.
Sangue.
A metà del corridoio, due gambe nude e inerti spuntavano da una porta, distese in una pozza nera. Ang Gelu fece cenno a Lisa di ritornare nel tempio. Lei scosse il capo e sorpassò il monaco. Non si aspettava di salvare quell’uomo, chiunque fosse. Era evidente che era già morto, ma l’istinto la spingeva a proseguire. Fatti cinque passi, raggiunse il cadavere.
Le ci volle un solo istante per registrare la scena.
Gambe. Non rimaneva nient’altro di quell’uomo. Solo un paio di arti recisi, spaccati a metà coscia. Lisa continuò a fissare il resto della stanza, anzi del macello. Braccia e gambe erano impilate al centro del locale, come cataste di legna da ardere.
E poi c’erano le teste, ben allineate lungo una parete. Sguardi fissi, occhi spalancati e pieni di orrore.
Ang Gelu l’aveva raggiunta. A quella vista s’irrigidì e borbottò qualcosa che sembrava per metà preghiera e per metà imprecazione.
Per tutta risposta, qualcosa si mosse nella stanza. Emerse dall’altro capo della catasta di arti. Un uomo nudo, con la testa rasata, imbevuto di sangue come un neonato. Era uno dei monaci del tempio.
Emise un sibilo gutturale. Brillava di madida follia. La luce scarsa si rifletté nei suoi occhi, come in quelli di un lupo nella notte.
Il mostro avanzava pesantemente verso di loro, trascinando una falce lunga novanta centimetri. Lisa fuggì, allontanandosi di diversi passi lungo il corridoio.
Ang Gelu parlò dolcemente, coi palmi delle mani sollevati a mo’ di supplica, cercando evidentemente di placare quella creatura famelica. «Relu Na… Relu Na.»
Lisa capì che il monaco conosceva il folle, probabilmente da una visita precedente al monastero. Il semplice atto di dargli un nome lo umanizzava, ma allo stesso tempo rendeva ancora più raccapricciante tutto quell’orrore.
Con un urlo stridente, il monaco si scagliò contro il confratello. Ang Gelu schivò facilmente la falce. Il mostro aveva perso anche la coordinazione, oltre alla testa. Ang Gelu lo abbrancò, cingendolo in un abbraccio e bloccandolo contro uno stipite della porta.
Lisa agì rapidamente. Lasciò cadere lo zaino, tirò giù una cerniera ed estrasse una scatola di metallo, che aprì col pollice.
All’interno c’era una fila di siringhe di plastica, protette e già caricate con vari farmaci d’emergenza: morfina per il dolore, epinefrina per l’anafilassi, Lasix per l’edema polmonare. Sebbene le siringhe fossero etichettate, aveva memorizzato la posizione di ciascuna: nelle emergenze, ogni secondo era importante. Tirò fuori l’ultima siringa.
Midazolam, un sedativo iniettabile. Manie e allucinazioni non erano insolite alle altitudini elevate e a volte dovevano essere controllate chimicamente.
Tolse il cappuccio dell’ago coi denti e si precipitò verso i due monaci.
Ang Gelu teneva ancora intrappolato l’altro, che però si dibatteva e cercava di divincolarsi dalla sua presa. Ang Gelu aveva il labbro tagliato e il collo graffiato.
«Lo tenga fermo!» urlò Lisa.
Il monaco fece del suo meglio, ma in quel momento, presentendo forse l’intenzione della dottoressa, il folle si protese verso di lui e gli affondò un morso nella guancia.
Ang Gelu urlò, mentre l’altro gli dilaniava la carne, ma mantenne salda la presa.
Lisa si prodigò per aiutarlo, conficcando l’ago nel collo del pazzo. Poi spinse con forza lo stantuffo. «Lo lasci andare!»
Ang Gelu lo spinse con forza contro lo stipite, facendogli sbattere la testa contro il legno. Sia lui sia la dottoressa fecero qualche passo indietro.
«Il sedativo farà effetto in meno di un minuto.» Avrebbe preferito uno stick endovenoso, ma era impossibile, con un uomo che si dimenava in quel modo. L’iniezione intramuscolare profonda doveva bastare. Una volta che si fosse calmato, Lisa avrebbe potuto intervenire in modo più raffinato e forse ottenere anche qualche risposta.
Il monaco nudo gemette, toccandosi il collo. Il sedativo gli dava bruciore. Si scagliò di nuovo verso di loro, barcollando, cercando la falce caduta a terra. Poi si raddrizzò.
Lisa trattenne Ang Gelu. «Aspetti…»
Bang!
Il colpo di fucile, esploso nello stretto corridoio, fu assordante. La testa del monaco scoppiò in una pioggia di sangue e ossa. Il corpo cadde all’indietro per l’impatto, accartocciandosi sotto di lui.