Lisa e Ang Gelu fissavano scioccati il tiratore.
Il soldato nepalese imbracciava ancora l’arma. L’abbassò lentamente. Ang Gelu cominciò a rimproverarlo nella sua lingua madre. Ci mancava soltanto che gli togliesse il fucile.
Lisa si avvicinò al corpo e cercò di sentirgli il polso. Niente. Fissò il cadavere, cercando di trovare qualche risposta. Ci sarebbe voluto un obitorio con moderne attrezzature forensi per accertare la causa della follia. A giudicare dalla storia del messaggero, qualsiasi cosa fosse successa, non riguardava soltanto quell’uomo. Dovevano essere stati colpiti anche altri, in varia misura.
Ma da cosa? Erano stati esposti a metalli pesanti contenuti nell’acqua, a una fuga di gas velenosi dal sottosuolo o a qualche muffa tossica in cereali avariati? Poteva essere qualcosa di virale, come l’Ebola? O persino una nuova forma del morbo della mucca pazza? Cercò di ricordare se gli yak fossero soggetti al contagio, ricordando la carcassa gonfia in cortile. Non lo sapeva.
Ang Gelu ritornò accanto a lei. Aveva la guancia devastata, ma sembrava del tutto indifferente alla ferita. Tutto il suo dolore era concentrato sul cadavere. «Si chiamava Relu Na Havarshi.»
«Lo conosceva?»
«Era il cugino del marito di mia sorella. Veniva da un piccolo villaggio del Raise. Era finito nella sfera d’influenza dei ribelli maoisti, ma la loro ferocia inarrestabile non si conciliava con la sua natura, perciò era fuggito. Per i ribelli equivaleva a una sentenza di morte. Per nasconderlo, gli ho trovato un posto al monastero, dove i suoi ex compagni non l’avrebbero mai scovato. Qui aveva un luogo sereno per guarire… o almeno così pregavo che fosse. Ora dovrà trovare da sé la strada verso la pace.»
«Mi spiace.» Lisa si alzò. Ripensò alla catasta di arti nella stanza accanto. Forse la follia aveva fatto scattare una sorta di shock post-traumatico nella mente dell’uomo, facendogli mettere in atto ciò che più lo terrorizzava?
Si sentì un altro scricchiolio sopra le loro teste.
Tutti gli sguardi si rivolsero verso l’alto.
Lisa aveva dimenticato che cosa li aveva condotti lì. Ang Gelu indicò una scala stretta e ripida accanto alla porta drappeggiata che dava sul tempio. Le era sfuggita. Somigliava più a una scala a pioli che a una scala vera e propria.
«Ci vado io», disse il monaco.
«È meglio non dividerci», ribatté lei. Ritornò allo zaino e preparò un’altra siringa di sedativo. La tenne in mano. «Si assicuri soltanto che Mr. Sparaprima Pensadopo tenga il dito lontano dal grilletto.»
Il soldato fu il primo a salire. Perlustrò le immediate vicinanze e fece loro cenno di raggiungerlo. Arrivata in cima, Lisa scoprì una stanza vuota. In un angolo erano ammassate pigne di cuscini sottili. La stanza odorava di resina e dell’incenso del tempio sottostante.
Il soldato puntava il fucile contro una porta di legno all’altra estremità. Dalla fessura trapelava una luce tremula. Prima che potessero avvicinarsi, il fascio di luce fu attraversato da un’ombra.
C’era qualcuno là dentro.
Ang Gelu raggiunse la porta e bussò.
Lo scricchiolio cessò.
Il monaco disse qualcosa, rivolgendosi alla persona oltre la porta. Lisa non capì le sue parole, ma l’altro sì. Si sentì un suono di legno raschiato e di un catenaccio che si apriva. La porta si socchiuse di una fessura, non di più.
Ang Gelu poggiò il palmo sulla porta.
«Faccia attenzione», sussurrò Lisa, stringendo forte la siringa, sua unica arma.
Accanto a lei, il militare fece la stessa cosa col fucile.
Ang Gelu spinse la porta, spalancandola. La stanza non era più grande di una cabina armadio. Nell’angolo c’era un letto sporco. Accanto, un tavolino con una lampada a olio. L’aria era pregna del fetore di urina e feci che esalava da un vaso da notte scoperto, ai piedi del letto. Chiunque si fosse chiuso là dentro, non usciva ormai da giorni.
In un angolo c’era un uomo anziano, che volgeva loro le spalle. Indossava una tunica rossa come quella di Ang Gelu, ma la sua era logora e macchiata. Aveva legato le falde inferiori dell’abito attorno alle cosce, scoprendo interamente le gambe. Era intento a un progetto: scriveva sulla parete. Anzi dipingeva con le dita.
Intrise del suo stesso sangue.
Ancora follia.
Nell’altra mano teneva un pugnale corto. Le gambe nude erano segnate da tagli profondi, la fonte del suo inchiostro. Continuò a lavorare anche quando Ang Gelu entrò.
«Lama Khemsar», disse il monaco, in tono preoccupato e prudente.
Lisa entrò dopo di lui, con la siringa pronta tra le dita. Fece un cenno di assenso ad Ang Gelu, quando questi si voltò a guardarla. Poi fece cenno al soldato di stare indietro. Non voleva che si ripetesse ciò che era successo di sotto.
Lama Khemsar si girò. Aveva il viso molle e gli occhi vitrei e leggermente lattiginosi, ma la luce delle candele vi si rifletteva brillante, troppo brillante: febbrilmente brillante.
«Ang Gelu», borbottò il vecchio, fissando inebetito le centinaia di righe di testo dipinto su tutt’e quattro le pareti. Teneva alzato un dito intriso di sangue, pronto a continuare la sua opera.
Ang Gelu fece qualche passo verso di lui, chiaramente sollevato. Il capo del monastero non era ancora andato del tutto. Forse poteva dare qualche risposta. Gli parlò, nella lingua madre di entrambi.
Lama Khemsar annuì, pur rifiutandosi di essere distratto dalla sua opera scritta col sangue. Mentre Ang Gelu blandiva l’anziano monaco, Lisa studiava la parete. Sebbene quella scrittura non le fosse familiare, capiva che si trattava di un solo gruppo di simboli ripetuti innumerevoli volte.
Intuendo che il tutto doveva avere un qualche significato, Lisa infilò la mano libera nella borsa e ne estrasse la macchina fotografica. La puntò verso la parete alla bell’e meglio e scattò una foto. Si era dimenticata del flash.
Ci fu un’esplosione di luce nella stanza.
L’anziano urlò e si voltò. Brandendo il pugnale, fendette l’aria. Ang Gelu, allarmato, si ritrasse. Ma non era lui il bersaglio. Lama Khemsar urlò una serie di parole, in preda al panico, e si passò la lama attraverso la gola. Un rivolo cremisi si trasformò ben presto in un fiotto torrenziale. Il pugnale aveva reciso profondamente la trachea. Gli ultimi respiri dell’anziano monaco furono tutto un ribollire di sangue.
Con uno scatto, Ang Gelu gettò via l’arma, prese Lama Khemsar e lo adagiò sul pavimento, cullandolo tra le braccia. Il sangue gli intrise la veste, le braccia, il grembo.
Lisa poggiò macchina fotografica e borsa e si precipitò accanto ai due. Ang Gelu cercò di esercitare pressione sulla ferita, ma era inutile.
«Mi aiuti a metterlo a terra», disse Lisa. «Devo aprire un passaggio per l’aria…»
Ang Gelu scosse la testa. Sapeva che non c’era speranza. Non fece altro che cullare l’anziano Lama. Il respiro dell’uomo, indicato dalle bolle che emergevano dalla ferita, era già cessato. L’età, la perdita di sangue e la disidratazione avevano già debilitato Lama Khemsar.
«Mi spiace.» Lisa indicò le pareti con un gesto del braccio. «Pensavo che potesse essere importante.»
Ang Gelu scosse la testa. «Non hanno nessun senso, sono gli scarabocchi di un folle.»
Non sapendo che altro fare, Lisa infilò lo stetoscopio sotto la veste dell’uomo. Cercava di mascherare il senso di colpa mostrandosi indaffarata. Rimase in ascolto, invano. Neanche un battito. Scoprì invece alcune strane croste sulle costole. Scostò delicatamente i lembi della veste, denudando il petto del monaco.
Ang Gelu vi posò lo sguardo e sospirò. Evidentemente le pareti non erano l’unico mezzo che Lama Khemsar aveva scelto per esprimersi: sul petto del monaco era inciso un ultimo simbolo. A differenza degli strani simboli sulle pareti, però, la croce uncinata era inconfondibile: