La decisione era stata presa, e Wold sapeva di poterla imporre agli altri Anziani. E sapeva anche che si trattava dell'ultima decisione ch'egli avesse preso. Poteva mandarli alla guerra, ma colui che avrebbe fatto ritorno sarebbe stato Umaksuman, il capo dei guerrieri e perciò il più forte dei capi tra gli Uomini di Askatevar. L'azione compiuta da Wold aveva segnato la sua abdicazione. Umaksuman sarebbe stato il capo giovane. Sarebbe stato lui a chiudere il cerchio del Pestaggio, sarebbe stato lui a condurre i cacciatori nell'Inverno, a guidare le incursioni della Primavera, le grandi peregrinazioni dei lunghi giorni estivi. Il suo Anno cominciava ora…

— Andate — borbottò Wold, rivolto a tutti. — Convoca il Pestaggio per domani, Umaksuman. Di' allo sciamano di portare uno hann: uno grasso, con un po' di sangue… — Non desiderava parlare con Agat. Ed essi si allontanarono: tutti i giovani alti. Egli rimase accosciato sulle gambe rigide, davanti al fuoco, fissando le sue gialle fiamme come se fissasse il cuore di uno splendore perduto, l'irrecuperabile calore dell'Estate.

CAPITOLO QUINTO

Crepuscolo nei boschi

Il Nato Lontano uscì dalla tenda di Umaksuman e rimase fermo per un minuto a parlare con il giovane capo; entrambi rivolgevano lo sguardo a nord, socchiudendo le palpebre a causa del vento grigio e pungente. Agat muoveva una mano, la teneva sollevata come se stesse parlando delle montagne. Un soffio di vento portò qualche parola fino a Rolery, nel punto dove ella era ferma in attesa, sul sentiero che portava alla porta della città. Quando udì le sue parole, un tremito l'attraversò, una breve fitta di paura e di buio nelle vene, e le fece ritornare alla memoria il modo in cui quella voce le aveva parlato nella mente, nella carne, chiamandola a lui.

E sulla scia di quel ricordo, come un'eco distorta, le tornò alla memoria il suo secco ordine, preciso come uno schiaffo, quando, sul sentiero della foresta, si era voltato contro di lei, dicendole di andarsene, di allontanarsi.

D'improvviso, Rolery posò a terra i cestini che portava. Oggi si trasferivano dalle tende rosse della sua adolescenza nomade ai tetti a punta, alle gallerie e alle stradicciole della Città Invernale, e tutte le sue cugine-sorelle, zie e nipoti si affaccendavano, gridavano e correvano avanti e indietro per i sentieri, entravano e uscivano dalle tende e dalle porte con pellicce e sacchi e cestini e stoviglie. Ella posò il suo carico a fianco del sentiero e si diresse verso la foresta.

— Rolery! Ro-o-olery! — strillarono le voci che erano sempre occupate a strillare dietro di lei, per accusarla, per chiamarla, stridule dietro le sue spalle. Ella non si voltò, ma continuò a procedere innanzi a sé. E non appena si fu addentrata nei boschi, cominciò a correre. Quando ogni suono di voci si perse nel fremente, mormoreggiante silenzio degli alberi sferzati dal vento, e nulla giunse a ricordarle l'accampamento del suo popolo, tranne un debole, amarognolo odore di fumo nell'aria, ella rallentò i passi.

Adesso grandi tronchi caduti le sbarravano il cammino di tanto in tanto, e occorreva scavalcarli o passare sotto di essi, e i rami rigidi e morti le tiravano i vestiti, s'infilavano nel cappuccio. I boschi non erano sicuri con quel vento; anche ora, da un punto imprecisabile sopra di lei, udì lo schianto cupo di un albero che cadeva sotto la spinta del vento. Ma la cosa non aveva importanza. Voleva scendere nuovamente a quelle sabbie grigie, per rimanere ferma, assolutamente immobile, a guardare i dieci metri di acqua schiumeggiante precipitarsi su di lei… E improvvisamente, con la stessa immediatezza con cui si era messa in cammino, si fermò e rimase immobile sul sentiero, nella luce che già andava scemando.

Il vento soffiava, cessava, soffiava. Un cielo buio si dibatteva e si aggrondava sopra l'intreccio di rami spogli. Su quella pendice era già scesa una mezza oscurità. La collera e la determinazione abbandonarono la ragazza, lasciandola immobile, in una sorta di stupore atterrito, a sforzare le spalle per resistere al vento. Qualcosa di bianco lampeggiò davanti a lei, ed ella lanciò un grido, ma non si mosse. Di nuovo il bianco movimento le passò davanti, e poi s'immobilizzò improvvisamente davanti a lei, su un ramo spezzato: una grande bestia, un grosso uccello alato, di un purissimo color bianco, bianco di sopra e di sotto, con corte labbra uncinate e taglienti che si aprivano e si chiudevano, occhi argentei che la fissavano. Afferrandosi al ramo con quattro artigli nudi, la creatura abbassò lo sguardo su di lei, ed ella la fissò a sua volta dal basso, e nessuno dei due si mosse. Gli occhi d'argento non battevano mai. Ad un tratto, immense ali bianche si spalancarono, più larghe dell'altezza di un uomo, e sbatterono nell'aria fra i rami, spezzandoli. La creatura agitò le ali bianche e stridette, poi, quando giunse un soffio di vento, si lanciò nell'aria e si allontanò pesantemente, in mezzo ai rami e le nubi spinte dal vento.

— Un uccello delle tempeste — disse Agat, fermo sul sentiero a pochi passi di distanza da Rolery, dietro di lei. — Si dice che portino la tormenta.

La grande creatura argentea le aveva tolto ogni velleità. Per un istante, il piccolo fiotto di lacrime che, nella sua razza, accompagnava tutte le forti emozioni, l'accecò. Ella avrebbe voluto fermarsi per prenderlo in giro, per deriderlo, poiché aveva notato il risentimento che covava sotto la sua calma e la sua arroganza quando la gente di Tevar gli aveva mostrato disprezzo, l'aveva trattato per quel che era, un membro di una razza inferiore. Ma la creatura bianca, l'uccello delle tempeste, l'aveva atterrita, ed ella sbottò, fissandolo direttamente negli occhi, così come prima aveva fissato la bestia: — Ti odio! non sei un uomo, ti odio!

Poi cessò di lacrimare, distolse lo sguardo ed entrambi rimasero in silenzio per lungo tempo.

— Rolery — disse la voce pacata, — guardami.

Ella non obbedì. Agat si fece avanti, ed ella indietreggiò, gridando: — Non toccarmi! — in un tono di voce simile al grido dell'uccello delle tempeste, e storse la faccia. — Calmati — Agat le disse. — Ecco… prendi la mia mano, su! — L'afferrò mentre ella si divincolava per allontanarsi, e le strinse entrambi i polsi. Ancora una volta rimasero fermi, immobili.

— Lasciami — ella disse infine, con la sua voce normale. Egli la lasciò libera, immediatamente.

Ella trasse un lungo respiro.

— Tu mi hai parlato… ti ho sentito parlare dentro di me. Laggiù sulla sabbia. Puoi farlo ancora?

Agat la stava osservando, attento e calmo. Annui. — Certo. Ma già allora ti ho detto che non l'avrei rifatto.

— Ti sento ancora. Sento la tua voce. — Si copri le orecchie con le mani.

— Capisco… Mi spiace. Non sapevo che tu fossi un'eis… una tevarana, quando ti ho chiamata. È proibito dalla legge. Comunque, non avrebbe dovuto avere effetto…

— Che cos'è un'«eis»?

— Il nome che diamo a voi.

— E a voi, che nome date?

— Uomini.

Ella si guardò all'intorno: il bosco avvolto nell'oscurità ormai prossima, le macchie di grigio, gli scricchiolii, il tetto di nuvole che si sfilacciavano. Quel mondo grigio in movimento era molto strano, ma ella non aveva più paura. Il contatto di Agat, il vero tocco della sua mano, giunto a cancellare la sensazione insistente, impalpabile della sua presenza, le aveva dato la pace, e questa era aumentata quando avevano continuato a parlare. Adesso ella si accorse di essere stata quasi fuori di sé, nel corso del giorno e della notte precedenti.

— Tutta la tua gente può farlo… parlare a quel modo?

— Alcuni. È un'abilità che si può imparare. Occorre pratica. Vieni qui, siediti un poco. Te la sei vista brutta. — Era sempre aspro, eppure c'era una sfumatura, un suggerimento di qualcosa di diverso nella sua voce, adesso: come se l'urgenza con cui egli l'aveva chiamata, laggiù sulle sabbie, si fosse tramutata in un richiamo inconsapevole, infinitamente riservato, una mano tesa. Si misero a sedere sul tronco caduto di un albero di basuk, a un paio di passi dal sentiero. Ella notò che egli si muoveva e si sedeva in modo diverso da quello di un uomo della sua razza: l'addestramento del suo corpo, la somma dei suoi gesti, era assai sottilmente, ma completamente, estraneo a lei. E in particolar modo notò le sue mani dalla pelle scura, intrecciate fra le ginocchia. Egli continuò: — La tua gente avrebbe potuto imparare il linguaggio mentale, se avesse voluto farlo. Ma non hanno mai voluto, lo chiamano stregoneria, credo… I nostri libri dicono che noi stessi l'abbiamo imparato da un'altra razza, molto tempo fa, su un mondo chiamato Rokanan. È un'abilità e insieme un dono.


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