«C’è qualcosa che non va nel suo vino, Lord Vorkosigan?» chiese preoccupata la matrona.
«Il vitigno è un tantino… giovane» mormorò Miles. «Suggerirò all’ambasciatore di tenere quest’annata ancora un po’ nelle cantine.» Ad esempio fino a quando me ne andrò da questo pianeta…
Il salone principale di ricevimento era un ambiente con il soffitto a volta, in vetro, molto elegante in cui ci si aspettava di sentire un’eco mostruosa ma che era invece stranamente silenzioso nonostante tutte le persone che le nicchie e i vari piani potevano contenere. Smorzatori di rumore nascosti da qualche parte, pensò Miles… e sarebbe stato pronto a scommettere che se uno avesse saputo in che punto mettersi, avrebbe trovato anche delle zone mute, impenetrabili a orecchie indiscrete sia umane che elettroniche. Prese mentalmente nota, per il futuro, del punto in cui si trovavano l’ambasciatore barrayarano e l’ambasciatrice di Tau Ceti; sì, persino i movimenti delle loro labbra sembravano sfocati e come indefinibili. C’era un trattato sui diritti di passaggio nello spazio locale di Tau Ceti che sarebbe scaduto tra non molto.
Miles e la sua compagna si avviarono verso il centro architettonico della sala, la fontana con lo stagno. Si trattava di una scultura gocciolante e fresca, circondata da muschio e felci in tinta. Nelle acque ombreggiate si muovevano misteriose forme rosso dorate.
Miles si irrigidì di colpo e poi si costrinse a rilassarsi, mentre un giovane nell’uniforme nera cetagandana e il viso dipinto con i segni gialli e neri del ghemtenente si avvicinava a loro, sorridente e attento. Si scambiarono un cenno guardingo.
«Benvenuto sulla Terra, Lord Vorkosigan» mormorò il cetagandano. «È qui in visita ufficiale o per un viaggio educativo e di piacere?»
«Entrambe le cose, in realtà» rispose Miles scrollando le spalle. «Sono stato assegnato a questa ambasciata per la mia, ah… istruzione. Lei però è avvantaggiato, signore.» Non era vero, in effetti; sia i due cetagandani in uniforme che i due in borghese, più tre individui sospettati di essere segretamente al soldo dell’Impero gli erano stati indicati sin dall’inizio del ricevimento.
«Ghemtenente Tabor, addetto militare dell’ambasciata cetagandana» si presentò educatamente e di nuovo si scambiarono un rigido cenno del capo. «Conta di fermarsi molto, milord?»
«Non credo. E lei?»
«Ho intrapreso l’arte del bonsai, per hobby. Si dice che i giapponesi dell’antichità lavorassero su un singolo albero anche per cento anni. O forse era solo una loro impressione.»
Miles sospettò che l’altro stesse facendo dello spirito, ma il volto di Tabor era così serio che era difficile esserne sicuri. Forse temeva di screpolare le sue belle strisce di pittura.
Uno scroscio di risa, dolce come il trillare di campanellini, attirò la loro attenzione verso l’estremità della fontana. Ivan Vorpatril, appoggiato alla ringhiera cromata, chinava la testa scura verso la sua bionda compagna. La donna indossava un abito rosa salmone e argento, che pareva fluttuare anche mentre stava ferma, come in quel momento; la massa di capelli biondi, spettinati ad arte, le ricadeva su una spalla candida e le unghie rosa emettevano bagliori argentati ogni volta che muoveva le mani.
Tabor emise un fioco sibilo, si chinò galantemente sulla mano della matrona e si allontanò. Miles lo rivide all’altra estremità della fontana, che cercava di accostarsi ad Ivan… ma chissà come, fu certo che il cetagandano non si fosse accostato per estorcergli segreti militari. Non c’era da stupirsi se il suo interesse per Miles era stato solo superficiale. Ma la caccia di Tabor alla bionda fu interrotta da un gesto del suo ambasciatore e il ghemtenente fu costretto a seguire i suoi dignitari che se ne andavano.
«Che giovane simpatico, Lord Vorpatril» chiocciò la matrona. «Noi tutti qui lo apprezziamo molto. La moglie dell’ambasciatore mi ha detto che siete parenti, vero?» Piegò la testa di lato, in un gesto interrogativo.
«Siamo cugini, in un certo senso» rispose Miles. «E… chi è la giovane donna che è con lui?»
«Quella è mia figlia, Sylveth» rispose orgogliosa la matrona.
La figlia, naturalmente. L’ambasciatore e la moglie erano sottili e acuti conoscitori delle sfumature barrayarane di rango. Miles, che apparteneva al ramo principale della famiglia, oltre ad essere il figlio del Primo Ministro Conte Vorkosigan, superava Ivan nella scala sociale, se non in quella militare… il che significava, che lui, Miles, era condannato. Gli sarebbero state affibbiate sempre le matrone dei VIP, mentre Ivan si sarebbe spupazzato tutte le figlie…
«Una bella coppia» commentò a denti stretti.
«Vero? E siete cugini in che senso, Lord Vorkosigan?»
«Eh? Oh, sì, io e Ivan: le nostre nonne erano sorelle. Mia nonna era la figlia maggiore del Principe Xav Vorbarra e la nonna di Ivan la minore.»
«Due principesse? Che cosa romantica!»
Ivan accarezzò per un attimo l’idea di raccontarle nei particolari in che modo sua nonna, il fratello di lei e a maggior parte dei loro figli fossero stati trasformati in polpette durante il regno del terrore dell’Imperatore Yuri il Folle, ma lasciò perdere. No, la moglie del sindaco l’avrebbe vista solo come una storia bizzarra, da brivido… o peggio ancora, romantica. Miles non credeva che sarebbe riuscita ad afferrare fino in fondo la stupidità e la violenza delle azioni di Yuri, le cui conseguenze avevano plasmato la storia di Barrayar fino al presente.
«Lord Vorpatril possiede un castello?» chiese maliziosa la matrona.
«Oh, no. Sua madre, mia Zia Vorpatril» che socialmente è un barracuda che ti mangerebbe in un solo boccone «possiede un delizioso appartamento nella capitale di Vorbarr Sultana.» Tacque e poi riprese: «Avevamo un castello, ma è andato bruciato alla fine dell’Era dell’Isolamento.»
«Un castello in rovina: è quasi altrettanto romantico.»
«Terribilmente pittoresco» le assicurò Miles.
Qualcuno aveva lasciato sulla ringhiera della fontana un piatto con degli antipasti avanzati. Miles prese un salatino e lo sbriciolò per dare da mangiare ai pesci rossi, che vennero a galla ad afferrare le briciole con un sottile risucchio.
Uno però rifiutò quell’esca, continuando a restarsene nascosto sul fondo. Era interessante vedere un pesce rosso che non mangiava… ehi, ecco la soluzione al problema dell’inventario dei pesci rossi di Ivan. Forse quello testardo era un diabolico costrutto cetagandano, le cui fredde scaglie brillavano come oro rosso, perché erano d’oro.
Miles avrebbe potuto afferrarlo con una mossa felina, poi calpestarlo sotto i piedi e l’oggetto avrebbe emesso uno scricchiolio metallico e uno sfrigolio elettrico… allora Miles lo avrebbe sollevato in aria con un gesto di trionfo… «Ah, grazie alla mia astuzia e ai miei riflessi ho catturato la spia che c’era tra voi!»
Ma se la sua ipotesi fosse stata sbagliata… ah! lo squish sotto le suole, la matrona che si ritraeva inorridita e il figlio del primo ministro barrayarano avrebbe di colpo acquistato la nomea di un giovane con seri problemi emotivi… Immaginò se stesso rivolgersi con voce gracchiante alla terrorizzata matrona, mentre le interiora del pesce schizzavano sul pavimento: «Ah ah! Dovrebbe vedere cosa faccio ai gattini!»
Alla fine anche il grosso pesce rosso venne a galla e afferrò la sua briciola con uno schizzo che bagnò gli stivali immacolati di Miles. Grazie, pesce. Mi hai salvato da un considerevole imbarazzo, pensò Miles. Naturalmente, se gli artigiani cetagandani erano davvero bravi, potevano progettare un pesce meccanico che mangiava sul serio e magari lasciava anche un po’ di escrementi…
La moglie del sindaco gli aveva appena rivolto un’altra domanda insidiosa su Ivan, che Miles, assorto com’era, non colse affatto. «Sì, è un vero peccato quella sua malattia» affermò in tono soave e stava per lanciarsi in un maligno resoconto sul patrimonio genetico di Ivan, retaggio di matrimoni tra consanguinei, esposizione alle zone radioattiva rimaste dopo la Prima Guerra Cetagandana, l’eredità di Yuri il Folle, quando all’improvviso il comunicatore schermato che aveva in tasca suonò.