«La prego di scusarmi, signora, mi chiamano.» Che Dio ti benedica, Elli, pensò mentre si allontanava dalla matrona e cercava un angolo tranquillo per rispondere. Nessun cetagandano in vista. Trovò una nicchia libera al secondo piano, circondata da piante verdi e rispose.

«Sì, comandate Quinn?»

«Miles, grazie a Dio» rispose la voce affannata di Elli. «Sembra che ci sia un Problema, laggiù, e tu sei l’ufficiale dendarii più vicino.»

«Che genere di problema?» Non gli piacevano i problemi con la maiuscola e Elli non era certo portata a farsi prendere dal panico. Sentì lo stomaco contrarsi.

«Non sono riuscita ad ottenere particolari sicuri, ma sembra che quattro o cinque nostri soldati in licenza a Londra si siano barricati in un negozio con un ostaggio e rifiutino di arrendersi alla polizia. Sono armati.»

«I nostri o la polizia?»

«Tutti e due, purtroppo. Il comandante della polizia con cui ho parlato sembrava pronto a spiccicare sangue dappertutto e molto presto.»

«Di male in peggio. Ma che diamine credi che stiano facendo?»

«Che io sia dannata se lo so. In questo momento sono in orbita, sto per scendere, ma ci vorranno dai quarantacinque minuti a un’ora prima che sia sul posto. Tung è ancora più lontano: dal Brasile gli ci vogliono due ore di volo suborbitale. Tu però potresti essere lì in dieci minuti. Ecco, codifico l’indirizzo nel tuo comunicatore.»

«Chi ha permesso ai nostri ragazzi di portare armi dendarii fuori dalla nave?»

«È una bella domanda, ma temo che per la risposta dovremo aspettare gli accertamenti post-mortem… per così dire» aggiunse cupa. «Pensi che troverai il posto?»

Miles guardò l’indirizzo apparso sul display. «Credo di sì. Ci vediamo là.» Speriamo…

«Bene. Quinn chiude.» Il canale si interruppe.

CAPITOLO TERZO

Miles si rimise in tasca il comunicatore e osservò il salone dei ricevimenti. La festa era al culmine: c’erano forse un centinaio di persone presenti, in una rutilante varietà di abiti terrestri, stravaganti fogge galattiche e un discreto pullulare di uniformi, a parte quelle barrayarane. Alcuni dei primi arrivati stavano già prendendo congedo, scortati dai barrayarani attraverso il controlli di sicurezza. I cetagandani se n’erano effettivamente andati, insieme ai loro amici. La sua fuga doveva quindi essere opportuna più che strategica.

Ivan stava ancora chiacchierando con la sua bella compagna dall’altro lato della fontana e Miles gli si avvicinò senza tanti complimenti.

«Ivan, trovati all’ingresso principale tra cinque minuti.»

«Cosa?»

«È un’emergenza, ti spiegherò dopo.»

«Che genere di …» cominciò Ivan, ma Miles, cercando disperatamente di non mettersi a correre, era già scivolato fuori dalla sala diretto al tunnel di salita sul retro.

Quando la porta della stanza che divideva con Ivan si chiuse con un sibilo alle sue spalle, si tolse in fretta l’uniforme verde, gli stivali, si tuffò verso l’armadio e si cacciò addosso la t-shirt nera e i pantaloni grigi dell’uniforme dendarii. Gli stivali dell’uniforme di gala barrayarana derivavano dagli stivali di cavalleria, mentre quelli dendarii dagli scarponi della fanteria. Quando c’erano di mezzo i cavalli, gli stivali barrayarani erano più pratici, anche se Miles non era mai riuscito a farlo capire a Elli; ci sarebbero volute due ore e più in sella su di un terreno pesante di campagna, con le caviglie ridotte a vesciche sanguinanti per convincerla che quella foggia aveva uno scopo non solo estetico. Ma qui non c’erano cavalli.

Sigillò gli scarponi da combattimento dendarii e si infilò la giacca bianca e grigia mentre precipitava a tutta velocità giù per il tubo di caduta. Arrivato in fondo si fermò per aggiustarsela, poi sollevò il mento e trasse un profondo respiro: non poteva svignarsela senza farsi notare, se ansimava come un mantice a bocca aperta. Prese un corridoio secondario che passava attorno al salone e portava all’ingresso principale. Finora sempre nessun cetagandano, grazie a Dio.

Ivan vide Miles avvicinarsi e spalancò gli occhi; poi rivolse un affrettato cenno di scusa alla bionda e trasse il cugino contro una pianta in vaso, come se volesse nasconderlo alla vista. «Cosa diavolo…?» sibilò.

«Devi farmi uscire di qui, aggirare le guardie.»

«Oh, no, scordatelo! Galeni userà la tua pelle come materasso se ti vede vestito così.»

«Ivan, non ho tempo di discutere e non ho tempo di spiegare, ed è proprio per questa ragione che scavalco Galeni. Quinn non mi avrebbe chiamato se non avesse davvero avuto bisogno di me. Devo andarmene adesso.»

«Diventerai un ANA!»

«Non se nessuno si accorge che manco. Digli… digli che mi sono ritirato nella nostra stanza a causa di un tremendo dolore alle ossa.»

«È quella tua osteo-giuntura che si fa di nuovo risentire? Scommetto che il medico dell’ambasciata potrebbe farti avere il tuo farmaco antiinfiammatorio…»

«No, no… non più del solito, comunque… però almeno non è del tutto una bugia e c’è una possibilità che ci credano. Vieni, porta anche lei.» E accennò con il mento in direzione di Sylveth, che attendeva Ivan fuori portata d’orecchi, con un’espressione interrogativa sul volto a forma di petalo di fiore.

«E a che scopo?»

«Mimetizzazione.» Sorridendo a denti stretti, Miles spinse Ivan per il gomito verso l’ingresse principale.

«Come sta?» chiese a Sylveth in tono discorsivo, prendendole una mano e passandosela sotto il braccio. «Sono molto lieto di conoscerla. Si sta divertendo? Città meravigliosa, Londra…»

Anche lui e Sylveth facevano una bella coppia, decìse Miles, gettando un’occhiata in tralice alle guardie mentre le superavano. Gli uomini non avevano occhi che per la ragazza e con un po’ di fortuna lui non sarebbe stato che una vaga macchia grigia nei loro ricordi.

Sylveth lanciò a Ivan un’occhiata sbalordita, ma a quel punto erano giù usciti al sole.

«Non hai una guardia del corpo» gli fece notare il cugino.

«Incontrerò Quinn tra poco.»

«E come farai a rientrare nell’ambasciata?»

Miles si fermò. «Hai tempo fino a quando torno per trovare un modo.»

«Grrr! E tra quanto torni?»

«Non lo so.»

In quel momento l’attenzione delle guardie all’esterno venne distratta dal sibilo che annunciava l’arrivo di un veicolo terrestre davanti all’entrata; Miles ne approfittò per attraversare di corsa la strada e tuffarsi in un ingresso della metropolitana.

Dieci minuti e due coincidenze dopo, risalì e si ritrovò in una parte della città molto più vecchia, con edifici in stile architettonico del ventiduesimo secolo, restaurati. Non ebbe bisogno di controllare i numeri civici per individuare la sua destinazione. La folla, le transenne, le luci lampeggianti, le macchine a cuscino d’aria della polizia, i vigili del fuoco, le ambulanze… «Maledizione» mormorò e si avviò verso quella strada laterale, ripetendo tra le sé le parole e cambiando il suo accento in quello betano dell’ammiraglio Naismith: «Oh merda…»

L’ufficiale al comando doveva essere quello con il megafono, che stava in mezzo a quella mezza dozzina di uomini che brandivano fucili al plasma. Si fece strada tra la folla e scavalcò la transenna. «È lei l’ufficiale che comanda?»

L’uomo girò di scatto la testa, sorpreso, poi guardò in basso. La sua espressione sbalordita scomparve quando vide l’uniforme di Miles. «È anche lei uno di quei pazzi?» chiese.

Miles si dondolò sui tacchi, pensando a una risposta adeguata. Scartò le prime tre che gli vennero in mente e si limitò a dire: «Sono l’ammiraglio Miles Naismith, comandante della Flotta dei Liberi Mercenari Dendarii. Cos’è successo?» Si interruppe e lentamente e delicatamente spostò verso l’alto con il dito indice la canna di un fucile al plasma che una donna in armatura gli aveva puntato contro. «Per favore, tesoro, sono dalla vostra parte, credimi.» Gli occhi della donna ebbero un lampo di incertezza, ma il comandante della polizia le rivolse un brusco cenno del capo e lei indietreggiò di qualche passo.


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