— Che razza di roba sarebbe? — chiesi, sospettoso.
— Sono parole a cui potete dare il significato che preferite. Ma se volete il mio parere, vi consiglierei di collaborare con il signor Galloway. Noi non ci limitiamo a fabbricare gli apparecchi, dobbiamo anche venderli.
— E potrei avere la possibilità di lavorare?
— Sì — rispose Curtis dopo una breve esitazione. — Se proprio volete potremmo mettervi a disposizione un laboratorio di ricerca.
— Dunque, siamo d’accordo — saltò su Galloway tutto arzillo. — Scusatemi un momento… torno subito. Non ve ne andate, signor Davis. Voglio farvi fotografare accanto al prototipo della Domestica Perfetta.
Per tutto marzo e tutto aprile mi divertii alla Domestica Perfetta. Avevo a disposizione un’officina bene attrezzata e tutti i volumi scientifici che mi occorrevano, un Dino Disegnatore (l’azienda non produceva macchine di questo tipo, ma si serviva delle migliori in commercio), e come graditissimo accompagnamento musicale discorsi a base di termini tecnici dalla mattina alla sera.
Mi affiatai in modo particolare con Chuck Freudenberg, vicedirettore del reparto montaggio. A mio giudizio, Chuck era il migliore tecnico della ditta, anzi l’unico, in quanto gli altri, compreso Mac Bee, erano dei meccanici riveduti e corretti, con tante arie e poco sale in zucca. Quando ci conoscemmo meglio, Chuck ammise di essere del mio stesso parere, e disse: — Mac è un retrogrado. Detesta tutto quello che è veramente nuovo.
Quando gli chiesi se conosceva le origini della Società così com’era attualmente, mi spiegò che l’azienda aveva una ventina d’anni ed era stata fondata, con lo stesso nome di quella che l’aveva preceduta, da qualcuno che possedeva azioni della vecchia Società, e che si era assicurato il godimento dei brevetti che in origine io stesso avevo chiesto a nome della Ditta. — Mac Bee è stato assunto allora, credo — concluse Chuck.
Io e lui eravamo soliti trascorrere le serate davanti a un boccale di birra a discutere di argomenti tecnici, a criticare il sistema di lavoro, a elaborare progetti e idee. Sotto la sua guida amichevole comincia i a sentirmi finalmente all’altezza dei tempi, ma quando, una sera d’aprile, gli rivelai la mia idea di costruire una segretaria d’ufficio automatica, lui si fece dubbioso.
— Prima di esporre le tue idee alla ditta, pensaci bene. Da cinque anni non si cerca più niente di originale ma ci si limita a produrre su licenza altrui. Mac non ti lascerebbe passare il progetto, e prima di arrivare a Curtis devi passare attraverso l’ufficio di Mac, lo sai bene — mi disse.
Seguii il suo consiglio, e pur continuando a far progetti e a studiarci sopra, non lasciai in giro una carta. Bruciavo tutto, dopo essermene servito. Non avevo rimorsi nel farlo: mi avevano assunto come attrazione, e mi lasciavano lavorare purché non dessi loro fastidio.
La pubblicità suscitata intorno al mio nome da Galloway fruttò parecchi articoli su quotidiani e riviste, e mi procurò parecchie lettere, alcune di plauso e molte che mi promettevano le pene eterne perché con le mie invenzioni avevo voluto mettermi alla pari con il Creatore.
Ma la cosa più interessante di tutte fu una telefonata che ricevetti giovedì 3 maggio 2001.
— La signora Schultz è in linea, signor Davis. Schultz?
Al momento non ricordai, poi mi tornò alla mente la sconosciuta che mi aveva cercato al ricovero e di cui mi ero dimenticato.
— Passatemela — risposi.
— Parlo con Danny Davis?
Il telefono del mio ufficio non aveva schermo, quindi la donna non poteva vedermi.
— Sono io. E voi siete la signora Schultz?
— Oh, Danny caro, che piacere risentire la tua voce.
Poiché non rispondevo, lei proseguì: — Non mi riconosci?
Se l’avevo riconosciuta? Era Belle Gentry!
7
Il mio primo impulso fu di dirle di andare all’inferno, e sbattere giù il ricevitore. Avevo ormai capito da un pezzo che pensare a una vendetta era infantile. Vendicandomi non avrei riavuto Pete e sarei probabilmente finito in prigione. A essere sincero, dopo che le ricerche erano risultate vane, avevo quasi dimenticato Belle e Miles.
Ma siccome pensai che, quasi sicuramente, Belle sapeva dove si trovava Ricky, le diedi un appuntamento.
Lei avrebbe voluto che l’invitassi a pranzo, ma non lo feci per il semplice motivo che mangiare insieme è una cosa che si fa con amici, perciò, anche se ero disposto a rivedere Belle, non ero disposto affatto a mangiare e a bere con lei. Mi feci dare il suo indirizzo e le dissi che sarei andato da lei la sera stessa, alle otto.
Abitava in una casa modesta nella parte bassa della città, e prima di suonare pensai che, forse, rivedendola, si sarebbero ridestati in me gli antichi sentimenti di rancore e di risentimento. Ma non appena mi ebbe aperto la porta mi accorsi che lei stessa e il tempo mi avevano vendicato.
Secondo gli anni che aveva dichiarato d’avere all’epoca del nostro fidanzamento, Belle avrebbe dovuto essere sulla cinquantina, ma probabilmente ne aveva sessanta suonati. Grazie alle continue scoperte della geriatria e dell’endocrinologia, una donna che tenga al suo aspetto e abbia i mezzi per curarsi, può dimostrare trent’anni anche quando ne ha sessanta, ma Belle non si era data questa pena.
Evidentemente si credeva ancora affascinante, perché indossava una vestaglia trasparente che metteva in mostra troppo, rivelando che apparteneva, senza possibilità di equivoco, ai mammiferi, che era troppo grassa, e che non faceva ginnastica.
Ma lei non se ne rendeva conto. Il suo cervello, un tempo così acuto, le aveva dato un concetto assai alto di sé, rendendola incapace di vedersi qual era veramente.
Mi si gettò addosso con strilletti di gioia, e fece per baciarmi, ma io la presi per i polsi, respingendola. — Stai calma, Belle! — le dissi.
— Ma tesoro! Sono così felice… così eccitata… così emozionata di vederti!
— Ne sono convinto — dissi, deciso a non perdere la calma, per quanto non mi sembrasse facile. — Ricordi l’ultima volta che mi hai visto? Mi avevi rimpinzato di droga in modo da farmi sottoporre al Lungo Sonno senza che avessi la possibilità di protestare.
Perplessa e offesa, lei ribatté: — Ma amore mio, l’abbiamo fatto per il tuo bene! Eri così malato!
Capii che era convinta di quello che diceva, perciò tagliai corto. — Già, già. E Miles, dov’è? Come mai sei la signora Schultz, adesso?
— Non lo sai? — rispose lei, spalancando gli occhi.
— Cosa dovrei sapere?
— Povero Miles… povero caro Miles! Dopo che tu ci hai lasciati, Danny, visse soltanto due anni. — La sua espressione mutò di colpo. — Quel farabutto mi ingannava!
— Come mi dispiace! — dissi, chiedendomi come fosse morto Miles. Gli aveva messo l’arsenico nella minestra, forse? Ma decisi di attenermi al motivo per cui ero andato lì, perciò dissi: — E Ricky dov’è?
— Ricky?
— Sì, la figlia di Miles. La piccola Federica.
— Quell’insopportabile oca! E cosa ne so? Andò a stare da sua nonna.
— Dove? E come si chiama sua nonna?
— Dove? A Tucson, o a Yuma… in qualche posto del genere, insomma. Forse era una india. Ma che importa? Caro, non voglio parlare di quella ragazzina impossibile. Voglio parlare di noi
— Un momento. Come si chiamava sua nonna?
— Danny, cominci a diventare noioso. Perché diavolo dovrei ricordarmi una cosa simile?
— Ti ho chiesto come si chiamava!
— Oh… Hanolon, no, Harney… o forse Heinz. Magari era Heinz. O forse Hinkey… Non essere noioso, caro. Beviamo qualcosa e brindiamo alla nostra felice riunione.
— Ho smesso di bere — le dissi, ed era vero. Ora mi limitavo alle birre che gustavo in compagnia di Chuck.
— Devo dire che sei proprio insopportabile! Spero comunque che non ti dispiacerà se bevo io. — Mentre parlava si versò una generosa dose di gin, poi da un tubetto prese due pastiglie: — Di queste ne vuoi? — mi chiese. Riconobbi le pastiglie: euforion, un eccitante che secondo i fabbricanti era innocuo e non produceva assuefazione.