Gli esploratori s’incontrarono in perfetto orario, dotati di tutto l’equipaggiamento protettivo che avevano ricevuto al loro arrivo ma che sino a quel momento non avevano avuto occasione di usare, e che comprendeva un casco, i cilindri per l’ossigeno, un purificatore d’aria, insomma tutto quello che era necessario per una gita all’aperto su Marte durante una giornata calda, nonché una tuta termica fornita di speciali pile a secco grazie a cui si poteva stare caldi e a proprio agio anche se la temperatura esterna scendeva a cento sotto zero, e che portarono con sé in quella gita solo per misura precauzionale, nel caso che un guasto alla pulce li costringesse a un’assenza prolungata dalla città.
Il pilota dell’automezzo era un giovane geologo dall’aspetto particolarmente robusto, il quale affermava di aver trascorso più di metà del suo tempo, da quando si trovava su Marte, all’aperto, fuori di Porto Lowell. Dava l’impressione di sapere il fatto suo, e Gibson non trovò difficoltà ad affidargli la sua preziosa esistenza.
«Queste macchine si guastano spesso?» chiese mentre salivano sulla pulce.
«No, state tranquillo. Hanno uno straordinario margine di sicurezza ed è veramente molto difficile commettere un errore di manovra. Certo, qualche volta capita che un guidatore inesperto si insabbi, ma anche in questo caso è facile tirarsi fuori da soli usando la manovella a mano. Nel mese scorso è successo soltanto un paio di volte che qualcuno abbia dovuto tornare indietro a piedi.»
«Speriamo di non essere noi i terzi» disse Mackay, mentre il veicolo s’infilava nel compartimento stagno.
«Io non me ne preoccuperei» disse il conducente ridendo, mentre aspettavano che si aprisse la porta esterna. «Non ci allontaneremo molto dalla base, quindi potremo sempre tornare indietro senza troppa fatica anche se succedesse qualche inconveniente.»
Sospinti da un colpo di corrente percorsero velocemente l’ultimo tratto del compartimento e uscirono dalla città. Nel vivido e basso tappeto vegetale era stato tagliato un passaggio, una specie di viottolo che circondava la cupola e da cui partivano altre strade che portavano alle vicine miniere, alla stazione radio, all’osservatorio in cima a un’altura, e alla pista di atterraggio dove in quel preciso momento si stava procedendo allo scarico della merce dell’Ares trasportata con i razzi-traghetto in continuo viavai da e per Deimos.
«Ecco» disse il conducente fermandosi al primo incrocio. «Sono a vostra completa disposizione. Da che parte volete andare?»
Gibson stava litigando con una carta geografica troppo grande per le proporzioni della minuscola cabina.
La loro guida diede un’occhiata di disprezzo alla carta.
«Non so proprio dove abbiate scovato quella roba» disse. «Probabilmente ve l’hanno data all’Amministrativo, ma ha l’età di Adamo ed Eva. Se mi dite dove volete che vi porti, vedrete che me la caverò benissimo senza bisogno di consultare quella roba.»
«Come volete» disse Gibson. «Io direi di salire un po’ sulle colline e di dare un’occhiata intorno. Andiamo all’Osservatorio.»
La pulce si lanciò con un balzo all’assalto della strada e ben presto il verde luminoso che li circondava si confuse in una macchia stemperata, priva di contorni.
«Che velocità raggiungono questi aggeggi?» chiese Gibson quando fu riuscito a districarsi dalle ginocchia di Mackay sulle quali era andato a finire.
«Su una strada buona possono fare i cento; ma siccome di strade buone su Marte non ce ne sono, dobbiamo rassegnarci a un’andatura da lumaca. Adesso siamo sui sessanta, ma su terreno accidentato si è fortunati a mantenere una media di trenta.»
«E che autonomia hanno?» chiese Mackay, con una evidente punta d’inquietudine.
«Un buon migliaio di chilometri con una sola carica, compresa l’energia per il riscaldamento, la cucina eccetera. Ma per viaggi lunghi di solito ci portiamo dietro un rimorchio con batterie di ricambio. Il massimo sinora raggiunto è di circa cinquemila chilometri. Io personalmente ne ho percorsi tremila, quando facevo rilievi e misurazioni di terreno ad Argyra. In occasioni del genere però i rifornimenti vengono paracadutati.»
Erano in viaggio solo da pochi minuti, ma già Porto Lowell stava scomparendo all’orizzonte.
Riapparve di lì a poco, non appena la pulce cominciò a salire l’altura. Le colline intorno a Porto Lowell non raggiungevano i mille metri d’altezza, ma costituivano comunque un ottimo riparo contro i freddi venti invernali che soffiavano da sud, e nello stesso tempo offrivano buone posizioni per la stazione radio e l’Osservatorio.
Raggiunsero la stazione radio mezz’ora dopo aver lasciato la città. Sentendo che era venuto il momento di sgranchirsi un poco le gambe si misero le maschere e scesero dalla pulce passando a uno a uno dall’angusto compartimento stagno di materiale plastico pieghevole.
Non si poteva certo dire che il panorama fosse straordinario. A nord, le cupole di Porto Lowell galleggiavano come bolle di spuma lattea su un mare di smeraldo. Verso occidente Gibson colse una rapida visione vermiglia del deserto che fasciava l’intero pianeta. Poiché le creste delle colline lo sovrastavano, sia pure di poco, non riuscì a spingere lo sguardo a sud, ma sapeva che in quella direzione la verde striscia vegetale si allungava per parecchie centinaia di chilometri sino a perdersi nel Mare Erythraeum. Lì sul ciglio delle colline non c’erano piante, forse per la mancanza di umidità.
Si diresse verso la stazione radio, che essendo completamente automatizzata non gli diede la possibilità di chiacchierare con gli addetti come era solito fare. Si riteneva però sufficientemente preparato da intuirne il funzionamento. Il gigantesco riflettore parabolico era in posizione quasi orizzontale, puntato un poco a est rispetto allo zenith, puntato cioè verso la Terra che in quel periodo distava dal pianeta soltanto sessanta milioni di chilometri e si trovava tra Marte e il Sole.
La voce di Mackay, resa curiosamente sottile dall’atmosfera rarefatta, lo fece volgere di scatto. «Qualcuno sta per atterrare laggiù, verso destra.»
Gibson ebbe qualche difficoltà a individuare il piccolo razzo a freccia che si muoveva velocissimo nel cielo. Il traghetto si librò sulla città e si perse dietro le cupole per raggiungere la pista di atterraggio. Gibson si augurò che gli portasse il resto del bagaglio, dal quale era rimasto separato troppo a lungo.
L’Osservatorio sorgeva quattro o cinque chilometri più a sud, proprio sul ciglio della collina, dove le luci di Porto Lowell non correvano il rischio di disturbare l’opera degli scienziati. Gibson aveva sperato di vedere le specole scintillanti che sulla Terra contraddistinguono il luogo di lavoro degli astronomi, ma lì la cupola era costituita dalla solita bolla in materiale plastico dei quartieri di abitazione. Gli strumenti si trovavano all’aperto, e soltanto nel rarissimo caso di maltempo venivano ricoperti.
Il posto, a mano a mano che la pulce si avvicinava, sembrava completamente deserto. Si fermarono accanto allo strumento principale, un riflettore a specchio del diametro inferiore a un metro. Era sorprendentemente piccolo per far parte delle installazioni astronomiche del massimo osservatorio marziano. C’erano poi due minuscoli rifrattori, e un complicato aggeggio orizzontale. Mackay spiegò che era un telescopio a specchio girevole sull’asse orizzontale. Oltre alla cupola pressurizzata, non c’erano altri edifici.
All’interno però doveva esservi qualcuno, perché davanti all’ingresso era ferma una piccola pulce del deserto.
«Sono gente molto socievole» disse il giovane geologo mentre fermava il veicolo. «Qui la vita è assai monotona, e loro sono sempre felici di vedere qualcuno. Inoltre, sotto la cupola avremo la possibilità di sgranchirci le gambe e di mangiare in santa pace.»