«Ma non possiamo pretendere che ci preparino loro il pranzo» protestò Gibson, al quale seccava moltissimo di dover incorrere in obblighi che non gli era possibile ricambiare immediatamente.

Il giovane scienziato lo guardò sorpreso, quindi scoppiò in una sonora risata.

«Qui non siamo sulla Terra, sapete? Su Marte tutti si aiutano a vicenda… per forza. Altrimenti non si concluderebbe mai niente. Io però ho portato un po’ di provviste. Mi basta soltanto usare la loro cucina. Cucinare nell’interno di una pulce con quattro persone a bordo è alquanto scomodo.»

Come il geologo aveva preannunciato, i due astronomi di turno li accolsero con entusiasmo, e poco dopo, l’impianto d’aria condizionata della piccola cupola di plastica fu sottoposto a un superlavoro per sbarazzare l’ambiente degli odori della cucina. Mackay aveva subito agganciato l’astronomo più anziano, intavolando con lui una discussione tecnica sul lavoro dell’Osservatorio. Gibson non ne capiva quasi niente ma cercò lo stesso di assorbire il più possibile e di far tesoro di quella conversazione.

A quanto pareva la maggior parte del lavoro sbrigato nell’Osservatorio riguardava l’astronomia di posizione, cioè consisteva nel compito noioso ma importantissimo di trovare le latitudini e le longitudini, controllare l’esattezza dei segnali orario eccetera. Di lavoro d’osservazione se ne faceva pochissimo: di questo se ne occupavano già da molto tempo gli strumenti installati sulla Luna terrestre, e i piccoli telescopi dell’Osservatorio marziano, che erano oltretutto intralciati dalla presenza di un’atmosfera, non potevano certo competere con quelli. Erano state misurate le parallassi di alcune stelle più vicine, ma la maggior precisione offerta dalla più vasta orbita marziana era talmente lieve da rendere pressoché inutili gli sforzi in questo senso.

Dopo il pasto, gli ospiti furono invitati a dare un’occhiata nel grande riflettore. Poiché si era alle prime ore del pomeriggio, Gibson non avrebbe mai immaginato che ci fosse molto da vedere, ma era un glosso errore da parte sua, come non doveva tardare ad accorgersi.

Sospesa nel campo visivo, contro al cielo quasi nero, vicino allo zenith, Gibson vide una bellissima falce perlacea simile a una luna di tre giorni. Sul tratto illuminato recava chiaramente visibili alcuni rilievi, ma per quanto lo scrittore aguzzasse gli occhi al massimo non gli fu possibile di individuarli. Troppa parte del pianeta era in ombra perché lui potesse discernere i continenti maggiori.

Non molto lontano, ma assai più piccola e più pallida, aleggiava un’altra mezzaluna, lungo il cui orlo Gibson poté distinguere con facilità qualcuno tra i crateri più noti. Formavano davvero una bella coppia i corpi gemelli Terra e Luna, ma apparivano talmente remoti ed eterei che Gibson non provava più alcuna nostalgia e alcun rimpianto per tutto quello che vi aveva lasciato.

Uno dei due astronomi gli stava parlando, il casco vicinissimo al suo.

«Quando è buio si possono vedere le luci delle città, sul lato notturno. New York e Londra si distinguono benissimo. Lo spettacolo più bello però è il riflesso del sole sul mare. Lo si nota vicino all’orlo del disco quando non c’è nuvolaglia… è come una stella brillantissima e tremula. Adesso però non è visibile perché quello che si vede sul tratto della falce è quasi tutta terraferma.»

Quando non ci fu proprio più niente di nuovo da vedere, si accomiatarono dai due astronomi che li salutarono con un po’ di tristezza quando la pulce si allontanò seguendo la cresta della collina. Il giovane geologo disse che intendeva fare un piccolo giro per raccogliere alcuni campioni di roccia, e poiché per Gibson una parte di Marte equivaleva all’altra, lo scrittore non fece obiezioni.

Sulle colline non esistevano vere e proprie strade, ma in epoche remotissime ogni asperità del suolo era stata livellata cosicché il terreno appariva ora perfettamente liscio e piano. Qua e là qualche masso ostinato sporgeva ancora dalla superficie uniforme del pianeta, offrendo un contrasto caleidoscopico di colori e forme, ma erano ostacoli facilmente aggirabili. Un paio di volte notarono piccoli alberi, se così si potevano chiamare, di una specie che Gibson non aveva mai visto prima. Più che alberi sembravano rami di corallo, rigidi e pietrificati. A detta del geologo, la loro età era incalcolabile poiché, per quanto fossero certamente vivi, nessuno era ancora riuscito a calcolarne la velocità di crescita. Certo non potevano avere meno di 50.000 anni. Il loro sistema di riproduzione era un mistero assoluto.

Verso la metà del pomeriggio, giunsero a una bassa roccia splendidamente colorata. Ponte dell’Arcobaleno la chiamò il geologo, e richiamò irresistibilmente alla memoria di Gibson un fiammeggiante canyon dell’Arizona, anche se in scala minore. Smontarono dalla pulce, e mentre lo scienziato raccoglieva i suoi campioni, Gibson scattò tutto un rullino di pellicola a colori portata con sé appunto per occasioni simili.

«Sarà bene avviarci, se vogliamo essere a casa per l’ora del tè» disse a un certo punto il geologo. «Possiamo ritornare per la stessa strada oppure girare dietro le colline. Che cosa preferite?»

«Perché non passiamo per la pianura? Sarebbe il percorso più diretto» suggerì Mackay, il quale cominciava a essere un po’ annoiato della gita.

«Ma anche il più lento… bisogna procedere a passo d’uomo, attraverso quei cavoli troppo cresciuti.»

«Io detesto tornare sui miei passi» disse Gibson. «Giriamo dietro le colline e vediamo un po’ quello che troviamo da quelle parti.»

La giovane guida rise.

«Non illudetevi con speranze inutili. Di qui o di lì è pressappoco lo stesso. Su, si parte!»

La pulce balzò in avanti e il Ponte dell’Arcobaleno scomparve presto alle loro spalle. Il percorso si snodava ora attraverso una regione completamente brulla, dove anche gli alberi pietrificati erano scomparsi. A volte Gibson notava chiazze verdi, che credeva vegetazione, ma non appena si avvicinavano scopriva invariabilmente un ennesimo giacimento minerale. Era però un paesaggio straordinariamente bello, un vero paradiso geologico, e Gibson sperò in cuor suo che gli uomini non osassero mai saccheggiarlo con i loro scavi e le loro ricerche scientifiche e minerarie, perché certamente quella zona era una delle località più interessanti di Marte.

Viaggiavano da forse mezz’ora quando le colline presero a digradare entro una lunga valle serpeggiante che presentava senza possibilità di equivoco tutte le caratteristiche di un antico corso d’acqua. Cinquanta milioni di anni prima circa, spiegò il geologo, un grande fiume scorreva in quel letto per portare le sue acque nel Mare Erythraeum, uno dei pochi mari marziani, se così si potevano definire. Fermarono il mezzo e osservarono l’alveo vuoto con un misto di sentimenti contrastanti. Gibson tentò d’immaginare come doveva essere la regione in quei tempi remoti, nel periodo in cui i grandi rettili dominavano la Terra e l’Uomo era ancora una larva dall’imperscrutabile, lontanissimo futuro. Le rocce rosse non dovevano essere molto diverse da allora. In mezzo alle rocce, il fiume si era certamente aperto un varco verso il mare, con moto lento e pigro per effetto della debole gravità. Uno spettacolo quasi terrestre, ma lì era mai stato visto o percepito da esseri intelligenti?

L’antico fiume aveva lasciato in retaggio qualcosa di assai prezioso perché lungo le propaggini più basse della valle resisteva ancora una certa umidità, e una stretta striscia di vegetazione segnava in quel punto le rive dell’Erythraeum, e il suo verde smagliante formava un vivido contrasto col cremisi delle rocce. Le piante erano le stesse che Gibson aveva visto sull’altro versante delle colline, ma qua e là ne spiccavano di nuove. Erano anche sufficientemente alte da poter essere definite alberi, però non avevano foglie ma soltanto rami sottili, a forma di frusta, che vibravano di continuo malgrado l’immobilità dell’atmosfera. Gibson pensò che erano tra gli oggetti più inquietanti che lui avesse mai visto in vita sua. Gli sembrava che dovessero inaspettatamente, minacciosamente, allungare quei loro ripugnanti tentacoli a ghermire il passante ignaro. Invece erano piante assolutamente innocue, come tutto quello che si trovava su Marte.


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