— Dov’è… dov’è…

— Nel lettino! — disse la levatrice, uscendo. Shevek trovò quel letto piccolissimo, che era pronto da quattro decadi in un angolo della stanza, e il bambino neonato che vi stava dentro. In qualche maniera, nell’estremo precipitare degli avvenimenti, la levatrice aveva trovato il tempo di ripulire il neonato e di mettergli perfino un abitino, cosicché pareva meno scivoloso, meno simile a un pesce, di quando lo aveva visto per la prima volta. Il pomeriggio si era rabbuiato con la solita rapidità, la solita assenza di un senso del passaggio del tempo. La lampada era accesa. Shevek sollevò il bambino per portarlo a Takver. Il suo viso era incredibilmente piccolo, con grandi palpebre chiuse, dall’aspetto fragile. — Portalo qui — diceva Takver, — oh, ma sbrigati, fai presto a darmelo.

Lo trasportò per la stanza e con molta cautela lo appoggiò sullo stomaco di Takver. — Ah! — disse lei, piano, con tono di puro trionfo.

— Che cos’è? — chiese dopo un poco, con voce assonnata.

Shevek era seduto al suo fianco, sul bordo della predella. Indagò con attenzione, leggermente sorpreso dalla lunghezza del vestitino in contrasto con l’estrema brevità delle gambe. — Una bambina.

Intanto era ritornata la levatrice, che si aggirava per la stanza mettendo a posto cose. — Avete fatto un ottimo lavoro — disse, a tutt’e due. Essi annuirono debolmente. — Verrò a vedere domattina — disse, uscendo. La bambina e Takver erano già addormentati. Shevek posò la testa accanto a quella di Takver. Era abituato al piacevole odore di muschio della sua pelle. Adesso era cambiato; era divenuto un profumo, pesante e vago, pesante di sonno. Molto delicatamente posò su di lei un braccio, mentre giaceva su un fianco con la bambina contro il petto. Poi, nella stanza pesante di vita, s’addormentò.

Un Odoniano intraprendeva la monogamia esattamente come intraprendere una qualsiasi attività in comune con altre persone, una produzione, un balletto, un lavoro manuale. Il rapporto tra due compagni era una unione liberamente istituita come ogni altra. Finché funzionava, funzionava; se non funzionava, cessava di sussistere. Non era un’istituzione, bensì una funzione. Non aveva altre sanzioni che quella della coscienza personale.

Questo era pienamente in accordo con la teoria sociale Odoniana. La validità delle promesse, anche delle promesse a scadenza indefinita, era profondamente intessuta nel pensiero di Odo; sebbene potesse parere che la sua insistenza sulla libertà di cambiamento invalidasse l’idea di voto o di promessa, in realtà era la libertà a rendere significativa la promessa. Una promessa è una direzione scelta, una auto-limitazione della scelta. Come Odo aveva fatto notare, se non si prende alcuna direzione, se non si va da nessuna parte, non avviene alcun cambiamento. La propria libertà di scegliere e di cambiare non verrà usata, esattamente come se si fosse in una prigione: una prigione di propria costruzione, un labirinto in cui nessuna direzione è migliore di un’altra. Così Odo giunse a vedere la promessa, il pegno, l’idea di fedeltà, come un elemento essenziale nella complessità della libertà.

Molte persone pensavano che questa idea di fedeltà non si applicasse correttamente alla vita sessuale. La femminilità di Odo l’aveva portata, dicevano queste persone, verso il rifiuto della vera libertà sessuale; qui, più che in altri punti, Odo non aveva scritto per gli uomini. E poiché questa obiezione veniva mossa tanto da uomini quanto da donne, si aveva l’impressione che Odo non avesse capito non tanto il mondo maschile, quanto piuttosto tutto un genere o parte dell’umanità, le persone per le quali la sperimentazione è il cuore del piacere sessuale.

Anche se poteva non averle capite, e se probabilmente le considerava deviazioni proprietaristiche dalla norma — dato che la specie umana è, se non una specie a coppie fisse, almeno una specie che trasmette le esperienze alle generazioni successive — Odo tuttavia provvide meglio alle persone dalle abitudini promiscue che non a coloro che tentavano il rapporto duraturo di compagni. Non c’erano leggi, limiti, pene, punizioni o disapprovazioni che riguardassero l’attività sessuale, di qualsiasi tipo essa fosse, ad eccezione della violenza carnale su un bambino o una donna, che probabilmente veniva vendicata sommariamente dai vicini dello stupratore se costui non si rifugiava più che in fretta tra braccia, assai più gentili, di un centro di cura. Ma le molestie sessuali erano estremamente rare in una società in cui la completa soddisfazione era la norma dalla pubertà in poi, e in cui l’unico limite sociale imposto alla vita sessuale era la debole pressione a favore dell’isolamento, una sorta di pudore imposto dalla comunalità della vita.

Dall’altra parte, invece, coloro che sceglievano di formare una coppia di compagni e di continuare tale forma di rapporto, sia omosessuale sia eterosessuale, incontravano problemi ignorati da coloro che si accontentavano dell’attività sessuale che trovavano. Dovevano affrontare non soltanto la gelosia, il possessivismo e le altre malattie della passione a cui l’unione monogamica fornisce un così buon terreno di crescita, ma anche le pressioni esterne dell’organizzazione sociale. Una coppia che sceglieva il rapporto di compagni, lo sceglieva pur sapendo che potevano venire separati in qualsiasi momento dalle esigenze della distribuzione del lavoro.

DivLab, l’amministrazione della divisione del lavoro, cercava di tenere unite le coppie, e di riunirle, a richiesta, non appena possibile; ma questo non sempre poteva essere fatto, specialmente quando c’erano degli incarichi urgenti, né la gente si aspettava che la Divisione del Lavoro mandasse all’aria intere liste e riprogrammasse calcolatori per cercare di farlo. Per la sopravvivenza, per la prosecuzione della vita, un anarresiano sapeva di dover essere pronto a recarsi dove c’era bisogno di lui, per svolgere il lavoro che doveva essere fatto. Cresceva con la conoscenza che la distribuzione del lavoro era un fattore importante della vita, un’immediata, permanente necessità sociale; mentre invece la coniugalità era una questione personale, una scelta che poteva venire fatta soltanto all’interno della scelta più importante.

Ma quando una direzione viene scelta liberamente e seguita con piena convinzione, può sembrare che ogni cosa contribuisca a rendere più agevole il cammino. Così, la possibilità della separazione, o la sua realtà, spesso avevano l’effetto di rafforzare la lealtà della coppia. Conservare una fedeltà spontanea e genuina in una società che non aveva sanzioni morali o legali nei riguardi dell’infedeltà, e conservarla nel corso di separazioni liberamente accettate che potevano giungere in qualsiasi momento e potevano durare anni, costituiva una sorta di sfida. Ma l’essere umano ama venire sfidato, cerca la libertà nell’avversità.

Nell’anno. 164, molte persone che non l’avevano mai cercato assaggiarono il sapore di questo tipo di libertà, e lo amarono, ne amarono il senso di cimento e di pericolo. La siccità iniziata nell’estate del 163 non trovò sollievo nell’inverno. Con l’estate del 164 cominciarono le privazioni, e la minaccia di disastro se la siccità fosse continuata.

Il razionamento era stretto; le chiamate lavorative erano indispensabili. La lotta per coltivare sufficiente cibo e distribuirlo divenne convulsa, disperata. Eppure la gente non era affatto disperata. Odo aveva scritto: «Un bambino libero dalla colpa della proprietà e dal fardello della competizione economica crescerà con il desiderio di fare ciò che deve essere fatto e la capacità di provare gioia nel farlo. È il lavoro inutile che rabbuia il cuore. La gioia della madre che allatta, dello studioso, del cacciatore fortunato, del buon cuoco, dell’artigiano abile, di chiunque compia un lavoro necessario e lo compia bene… questa gioia duratura è forse la fonte più profonda dell’affetto umano e della socialità intera.» Ci fu una sotterranea corrente di gioia, in tal senso, ad Abbenay quell’estate. Ci fu una felicità di lavorare nonostante la pesantezza del lavoro, una disponibilità a lasciare ogni preoccupazione non appena fosse stato fatto ciò che si poteva fare. La vecchia etichetta della «solidarietà» era ritornata in vita. Si prova esaltazione nello scoprire che il legame è più forte, in fin dei conti, di tutto ciò che lo mette alla prova.


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