All’inizio dell’estate, il CDP affisse manifesti che suggerivano di ridurre di un’ora la giornata lavorativa, poiché la distribuzione di proteine alle mense era adesso insufficiente per un normale dispendio di energia. L’attività esuberante delle strade cittadine cominciava già ad allentarsi. La gente, uscita presto dal lavoro, si attardava nelle piazze, giocava a bocce nei parchi asciutti, sedeva sulla soglia delle botteghe e attaccava conversazione con i passanti. La popolazione della città era visibilmente diminuita, poiché migliaia di persone si erano offerte volontarie per il lavoro agricolo di emergenza o vi erano state assegnate. Ma la fiducia reciproca alleviava la depressione e l’angoscia. — Ci aiuteremo reciprocamente a superare questo momento — dicevano, serenamente. E scorrevano grandi impulsi di vitalità, proprio sotto la superficie. Quando i pozzi della periferia settentrionale si prosciugarono, condotte temporanee collegate con altri distretti vennero posate da volontari che lavoravano nel loro tempo libero, gente esperta e no, adulti e adolescenti, e il lavoro venne fatto in trenta ore.

Verso la fine dell’estate, Shevek venne assegnato a una leva agricola di emergenza alla comunità di Fonti Rosse, negli altipiani del sud. Con la promessa di un po’ di pioggia caduta nella stagione equatoriale delle tempeste, si cercava di piantare un raccolto di grano di holum e di mieterlo prima che ritornasse la siccità.

Si era già aspettato una assegnazione di emergenza, poiché il suo lavoro di costruzione era finito, ed egli si era elencato come disponibile per le assegnazioni generali di lavoro. Per tutta l’estate non aveva fatto altro che tenere i suoi corsi, leggere, prestare assistenza ogni volta che c’era qualche lavoro volontario da svolgere nel loro isolato o in città, e poi tornare a casa da Takver e dalla bambina. Takver era tornata al laboratorio, soltanto la mattina, dopo cinque decadi. Come madre in allattamento aveva diritto a un supplemento di proteine e di carboidrati alla mensa, ed ogni volta ne approfittava; i loro amici non potevano più dividere con lei cibo fuori razione, non c’era più cibo fuori razione. Takver era magra, ma stava bene, e la bambina era piccola, ma robusta.

Shevek traeva molto piacere dalla bambina. Poiché era affidata a lui la mattina (la lasciavano al nido soltanto quando insegnava o svolgeva lavoro volontario), egli provava quel senso di essere necessario che è il fardello e la ricompensa della condizione di genitore. La bambina, attenta e sensibile, forniva a Shevek un perfetto uditorio per quelle fantasie verbali che egli tendeva sempre a frenare e che Takver sosteneva essere il suo lato folle. Si metteva la bimba sulle ginocchia e le dedicava scombussolate lezioni di cosmologia, spiegandole come il tempo in realtà fosse soltanto lo spazio girato su se stesso, e il cronone fosse l’intestino rovesciato del quanto, e la distanza una delle proprietà accidentali della luce. Dava alla bambina nomignoli stravaganti e sempre diversi, e le recitava ridicole filastrocche: Tempo è un vincolo, Tempo è tirannico, Supermeccanico, Superorganico — POP! — e al pop la bambina balzava di pochi centimetri nell’aria, strillando e agitando i pugni grassi. Entrambi ricevevano grandi soddisfazioni da questi esercizi. Quando ricevette l’assegnamento, fu come una lacerazione. Aveva sperato qualcosa nei pressi di Abbenay, non negli Altipiani del Sud, agli antipodi. Ma insieme con la spiacevole necessità di lasciare Takver e la bambina per sessanta giorni c’era la ferma sicurezza di tornare da loro. Finché l’avesse avuta, non si sarebbe lamentato.

La notte prima della partenza, Bedap venne a mangiare al refettorio dell’Istituto con loro, e tornarono tutti insieme alla stanza. Rimasero seduti a parlare nella notte calda, con la lampada spenta, le finestre aperte. Bedap, che mangiava a una piccola mensa dove i desideri speciali non rappresentavano un fastidio per i cuochi, aveva risparmiato per una decade le sue razioni di bevande speciali e le aveva prese tutte insieme sotto forma di una bottiglia da un litro di succo di frutta. La mostrò con orgoglio: una festa della partenza. Se la passarono in giro e la gustarono fastosamente, schioccando la lingua. — Ricordi — disse Takver, — tutto quel mangiare, la sera prima di lasciare l’Istituto? Ho mangiato nove di quelle frittelle.

— Portavi i capelli corti, allora — disse Shevek, sorpreso dal ricordo, che in precedenza non aveva mai associato a Takver. — Eri tu, no?

— E chi credevi che fosse?

— Accidenti, com’eri giovane a quell’epoca!

— E così tu, sono passati dieci anni da allora. Mi tagliavo i capelli per sembrare diversa e interessante. Mi è servito molto, davvero! — Rise con la sua risata forte e allegra, e subito la soffocò per non svegliare la bambina, addormentata nel lettino dietro il paravento. Nulla però sarebbe riuscito a destare la bimba, una volta addormentata. — Avrei voluto così tanto essere differente. Chissà perché?

— C’è un momento, verso i vent’anni — disse Bedap, — in cui devi scegliere se essere come tutti gli altri per il resto della vita, oppure rendere virtù le tue particolarità.

— O almeno accettarle con rassegnazione — disse Shevek.

— Shevek ha uno dei suoi attacchi di rassegnazione — disse Takver. — È la vecchiaia che incalza. Dev’essere terribile avere trent’anni.

— Non preoccuparti, tu non sarai rassegnata neppure a novanta — disse Bedap, dandole una pacca sulla schiena. — Ti sei rassegnata al nome della bambina, finalmente?

I nomi di cinque o sei lettere distribuiti dal calcolatore dell’anagrafe centrale, essendo univocamente caratteristici di ciascun essere umano vivente, prendevano il posto dei numeri che altrimenti una società computerizzata avrebbe dovuto attribuire ai suoi membri. Un anarresiano non aveva bisogno di altre identificazioni che del proprio nome. Il nome, pertanto, veniva sentito come una parte importante della propria persona, anche se una persona non poteva sceglierselo più di quanto non si potesse scegliere il naso o la statura. A Takver non piaceva il nome dato alla bambina, Sedik. — Suona come una manciata di sassi in bocca — disse, — non è adatto a lei.

— A me piace — disse Shevek. — Suona come una ragazza alta e sottile, dai capelli lunghi e neri.

— Ma è una ragazza piccola e grassa, con capelli invisibili — osservò Bedap.

— Dalle tempo, fratello! Ascoltate, devo fare un discorso.

— Discorso! Discorso!

— Shhh…

— Perché «shh»? Quella bambina non si sveglierebbe neppure per un cataclisma.

— Stai calmo. Sono emozionato. — Shevek alzò la tazzina di succo di frutta. — Io desidero dire… Desidero dire questo. Sono lieto che Sedik sia nata ora. In un anno duro, in un periodo duro, in cui ci occorre la fratellanza. Sono lieto che sia nata ora, e qui. Sono lieto che sia una di noi, un’Odoniana, nostra figlia e nostra sorella. Sono lieto che sia sorella di Bedap. Che sia sorella di Sabul, perfino di Sabul! Io bevo a questa speranza: che, finché vivrà, Sedik ami le sue sorelle e i suoi fratelli così gioiosamente, così fortemente, come io li amo questa sera. E che venga la pioggia…

Il CDP, il principale utente di radio, telefono e posta, coordinava i mezzi di comunicazione interurbani, così come coordinava i viaggi e le spedizioni tra le città. Non essendoci «affari» su Anarres, nel senso di ricerche di mercato, pubblicità, investimenti, speculazioni e così via, la posta era costituita principalmente di corrispondenza tra le varie federative industriali e professionali, delle loro direttive e i loro bollettini, di quelli del CDP, e di una piccola quantità di lettere private. Vivendo in una società dove ciascuno poteva trasferirsi dove voleva, in ogni momento, un anarresiano tendeva a cercare amici nel luogo in cui abitava, non in quello da cui era venuto via. I telefoni venivano usati raramente all’interno di una comunità: le comunità non erano così grandi. Perfino Abbenay manteneva lo schema regionale nei suoi «isolati», i quartieri semiautonomi entro cui si poteva raggiungere a piedi la persona o la cosa desiderata. Quindi la maggior parte delle telefonate erano interurbane, e passavano attraverso il CDP: le chiamate personali dovevano venire prenotate per posta, oppure non si trattava di vere conversazioni, ma semplicemente di messaggi lasciati ai centri del CDP. Le lettere viaggiavano aperte, non per legge, naturalmente, ma per abitudine. La comunicazione personale a lunga distanza è costosa in tempo e materiali, e poiché l’economia privata e quella pubblica erano la stessa cosa, c’era una certa antipatia nei riguardi delle lettere e delle telefonate inutili. Era un’abitudine frivola; puzzava di isolamento, di egoizzazione. Questo era probabilmente il motivo per il quale le lettere viaggiavano aperte: non avevate il diritto di chiedere a una persona di portare un messaggio che egli non potesse leggere. Una lettera viaggiava su un dirigibile postale del CDP se eravate fortunato, e su un treno di prodotti agricoli se non lo eravate. Alla fine arrivava alla stazione postale della città destinataria, e laggiù si fermava, poiché non c’erano postini, finché qualcuno non diceva al destinatario che c’era una lettera per lui, ed egli passava a prendersela.


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