Mentre diventava sempre più affamato, mentre il treno rimaneva immobile ora dopo ora sul binario laterale, tra una cava butterata e polverosa e un mulino chiuso, egli ebbe scuri pensieri sulla realtà della fame, e sulla possibile incapacità della sua società di superare una carestia senza perdere quella solidarietà che era la sua forza. Era facile dividere quando ce n’era sufficienza, magari il minimo sufficiente, per tutti. Ma quando non ce n’era abbastanza? Allora entravano in gioco la forza; la potenza divenuta diritto; il potere e il suo strumento, la violenza, e il suo alleato più devoto, l’occhio distolto per non vedere.

Il risentimento dei passeggeri nei riguardi degli abitanti della cittadina divenne molto amaro, ma era meno allarmante che non il comportamento degli abitanti stessi: il modo in cui si nascondevano dietro i «loro» muri con la «loro» proprietà, e ignoravano il treno, non gli rivolgevano neppure uno sguardo. Shevek non era l’unico passeggero depresso; una lunga conversazione serpeggiava a fianco dei vagoni fermi, con gente che vi entrava e ne usciva, obiettava e annuiva, tutta sullo stesso tema generale seguito dai suoi pensieri. Venne seriamente proposta una spedizione agli orti della cittadina, venne dibattuta con acrimonia, e sarebbe stata anche eseguita se il treno, finalmente, non avesse emesso il fischio della partenza.

Ma quando poi giunse alla stazione successiva, e tutti poterono consumare un pasto — una mezza forma di pane di holum e una scodella di minestra — la loro amarezza lasciò posto al sollievo. Quando arrivavate alla fine del piatto vi accorgevate che la minestra era molto rada, ma il primo assaggio, il primo assaggio era stato meraviglioso: valeva la pena di digiunare per esso. Tutti furono d’accordo su questo. Risalirono a bordo del treno ridendo e scherzando insieme. Aiutandosi reciprocamente, avevano superato l’avversità.

Un treno di vettovaglie accolse a Monte Equatoriale i passeggeri diretti ad Abbenay e li trasportò per gli ultimi ottocento chilometri. Giunsero in città tardi, in una notte ventosa di primo autunno; le strade erano vuote. Il vento passava in mezzo a loro come un fiume turbolento e secco. Al di sopra dei deboli lampioni, le stelle splendevano di una luce trepida e chiara. Le secche folate dell’autunno e della passione trasportarono Shevek lungo le strade, quasi correndo, per cinque chilometri fino al quartiere settentrionale, solo, nella città oscura. Fece d’un balzo i tre scalini dell’ingresso, corse per il corridoio, giunse alla porta, la aprì. La stanza era buia. Le stelle bruciavano nelle finestre buie. — Takver! — egli disse, e udì il silenzio. Prima di accendere la lampada, laggiù nell’oscurità, nel silenzio, d’improvviso, egli conobbe che cos’è la separazione.

Nulla mancava. Non c’era nulla che potesse mancare. Soltanto Sedik e Takver mancavano. Le Occupazioni di Spazi Inabitati giravano lentamente, luccicando piano, nella corrente d’aria che proveniva dalla porta aperta.

C’era una lettera sul tavolo. Due lettere. Una di Takver. Era concisa: aveva ricevuto un’assegnazione di emergenza al Laboratorio Sperimentale per lo Sviluppo delle Alghe Commestibili, nel Nordest, per un periodo indeterminato. Aveva scritto:

In coscienza non potevo rifiutare ora. Sono andata a parlare con loro, alla Divisione del Lavoro, e ho anche letto il progetto che hanno mandato al reparto Ecologia del CDP, ed è vero che hanno bisogno di me, poiché ho lavorato proprio su questo ciclo alga-ciliato-crostaceo-kukuri. Ho chiesto a DivLab che tu venissi assegnato a Rolny, ma naturalmente non faranno nulla se non lo chiederai anche tu, e se questo non sarà possibile a causa del lavoro all’Istituto, tu non lo farai. Dopotutto se andrà avanti troppo alle lunghe dirò loro di prendersi un altro genetista e tornerò indietro! Sedik sta molto bene e dice già le prime parole. Non durerà a lungo. Tutta, per la vita, la tua sorella, Takver. Oh ti prego vieni se puoi.

L’altra nota era scritta su un minuscolo pezzo di carta: «Shevek, ufficio Fisica al tuo ritorno. Sabul».

Shevek si aggirò infuriato per la stanza. La tempesta, l’impeto che lo aveva spinto lungo le strade, erano ancora in lui. Ma erano arrivati al muro. Non poteva andare più avanti, eppure doveva muoversi. Guardò nell’armadio. C’era soltanto il suo soprabito invernale e una camicia che Takver, che amava i lavori fini, gli aveva ricamato; i pochi abiti di Takver mancavano. Il paravento era ripiegato, e si vedeva il lettino vuoto. Il letto non era fatto, ma la coperta color arancione copriva le lenzuola e il materasso arrotolati. Shevek arrivò di nuovo contro il tavolo, lesse di nuovo la lettera di Takver. I suoi occhi si riempirono di lacrime di collera. Una rabbia di disappunto lo scuoteva, una collera, un presagio.

Non si poteva dare la colpa a nessuno. E questo era il lato peggiore di tutto l’accaduto. C’era bisogno di Takver, c’era bisogno di lei per lavorare contro la fame… la fame di lei, di lui, di Sedik. La società non era contro di loro. Era per loro; era con loro; erano loro.

Ma egli aveva rinunciato al suo libro, e al suo amore, e a sua figlia. A quante cose si può chiedere a un uomo di rinunciare?

— All’inferno! — disse forte. Il pravico non era una buona lingua per imprecare. È difficile imprecare quando il sesso non è una cosa impura e la bestemmia non esiste. — Oh, all’inferno! — ripeté. Accartocciò vendicativamente il piccolo sudicio messaggio di Sabul, e batté le nocche sull’orlo del tavolo, due, tre volte, cercando il dolore nella propria collera. Ma non c’era niente. Non c’era niente da fare, e nessun posto ove andare. Alla fine gli rimaneva soltanto il letto da preparare, e poi mettersi a letto da solo e cercare di dormire, con brutti sogni e senza conforto.

Come primo avvenimento del mattino successivo, Bunub bussò. Egli la accolse sulla porta e non si fece di lato per lasciarla entrare. Bunub era la loro vicina di corridoio; una donna di cinquant’anni, operaia nella fabbrica di Motori per Veicoli Aerei. Takver riusciva sempre a divertirsi di lei, ma Bunub aveva la capacità di fare andare in collera Shevek. Per prima cosa, desiderava la loro stanza. L’aveva chiesta la prima volta che si era resa libera, così diceva, ma l’inimicizia della contabile dell’isolato le aveva impedito di averla. La stanza in cui abitava non aveva la finestra d’angolo, oggetto della sua perenne invidia. Era una stanza doppia, tuttavia, ed ella vi abitava da sola, la qual cosa, considerata la carenza di alloggi, era egoistica; ma Shevek non avrebbe mai perso tempo a disapprovare la donna se non fosse stata lei stessa a costringerlo a forza di lagnanze. Quella donna spiegava, spiegava. Lei aveva un compagno, un compagno per la vita, «proprio come voi due», e qui un sorriso sciocco. Solo, dov’era il compagno? Chissà come, veniva sempre citato al passato. Intanto la doppia stanza era più che giustificata dalla successione di uomini che passavano per la porta di Bunub, un uomo diverso ogni notte, come se lei fosse una ruggente diciassettenne. Takver osservava la processione con ammirazione. Bunub arrivava e le raccontava ogni cosa di quegli uomini, e si lamentava, si lamentava. Il fatto di non avere la camera d’angolo era soltanto una delle sue innumerevoli afflizioni. Aveva una mente che era insieme insidiosa e invidiosa, capace di scoprire il male in ogni cosa e dargli direttamente voce. La fabbrica dove lavorava era una velenosa massa d’incompetenza, favoritismo e sabotaggio. Le riunioni del suo gruppo erano veri e propri manicomi, pieni di insinuazioni vergognose, tutte dirette contro di lei. L’intero organismo sociale si dedicava alla persecuzione di Bunub. Tutte queste cose facevano ridere Takver, a volte incontrollatamente, proprio in faccia a Bunub. — Oh, Bunub, mi fai così ridere! — diceva, e la donna, con i suoi capelli grigi, la bocca sottile e gli occhi bassi, sorrideva debolmente, senza dir nulla, senza per nulla offendersi, e continuava le sue mostruose recite. Shevek sapeva che Takver aveva ragione di ridere di lei, ma non gli riusciva di farlo.


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: