— È terribile — disse la donna, scivolando dietro di lui e recandosi direttamente al tavolo per leggere la lettera di Takver. La prese; Shevek gliela tolse di mano con una rapidità e una calma che la donna non aveva previsto. — Perfettamente terribile. Neppure una decade di preavviso. Soltanto: «Vieni qui! Immediatamente!». E poi dicono che siamo un popolo libero, che dovremmo essere un popolo libero. Che beffa! Rompere una coppia felice in questo modo. Ed è proprio questa la ragione per cui l’hanno fatto, lo sai. Sono contro il legame di compagni, lo puoi vedere ad ogni piè sospinto, danno assegnazioni differenti a ciascuno dei due. È quello che è successo a me e Labeks, esattamente la stessa cosa. Non ritorneremo mai più insieme. No di certo, con tutta la Divisione del Lavoro schierata contro di noi. Oh, il piccolo lettino vuoto. Povera creaturina! Non ha smesso di piangere per queste quattro decadi, giorno e notte. Mi ha tenuto sveglia per ore. Sono le carenze, certo; Takver non aveva abbastanza latte. E poi, mandare una madre in allattamento a un incarico a centinaia di chilometri di distanza così, immagina solo! Non credo che riuscirai a raggiungerla dove l’hanno mandata; dov’è che l’hanno mandata?

— Nordest. Voglio uscire per la colazione, Bunub. Ho fame.

— È proprio tipico come l’hanno fatto mentre eri lontano.

— Che cosa hanno fatto, mentre ero lontano?

— L’hanno mandata via… hanno rotto la coppia. — Leggeva la nota di Sabul, che aveva ridisteso con cura. — Ah, loro sanno quando devono farsi sotto! Suppongo che lascerai questa stanza, ora, no? Non ti permetteranno di tenerne una doppia. Takver parlava di tornare indietro presto, ma era chiaro che cercava soltanto di tenersi su di morale. Libertà, dicono che siamo liberi. Bello scherzo! Sballottati qua e là…

— Oh, accidenti, Bunub, se Takver non avesse voluto l’assegnazione, l’avrebbe rifiutata. Sai anche tu che c’è la minaccia di carestia.

— Be’, mi sono chiesta se non fosse lei che desiderava cambiare. Succede spesso, dopo che arriva un bambino. Io lo pensavo già da tempo, avreste dovuto dare la bambina al nido. E come piangeva. I figli vengono tra compagni. Li tengono legati. È naturale, proprio come dici, che lei volesse cambiare, e che abbia approfittato della prima occasione.

— Non ho detto questo. Vado a colazione. — Uscì, vibrando ancora in cinque o sei punti sensibili che Bunub gli aveva accuratamente ferito. L’orrore di quella donna stava nel fatto che dava voce alle sue paure più meschine. Ora la donna rimase nella stanza, probabilmente per studiarvi il proprio trasferimento.

Aveva dormito troppo, e giunse alla mensa proprio mentre chiudevano le porte. Ancora affamato dopo il viaggio, prese una doppia razione, tanto di pane quanto di minestra. Il ragazzo dietro il banco lo guardò accigliato. In quei giorni nessuno prendeva doppie razioni. Shevek gli restituì lo sguardo accigliato e non disse nulla. Nelle ultime ottanta ore aveva mangiato due scodelle di minestra e un chilo di pane, e aveva il diritto di recuperare ciò che aveva perso: ma che gli venisse un accidente se era disposto a spiegarlo. L’esistenza è la sua stessa giustificazione, il bisogno è diritto. Egli era un Odoniano, il senso di colpa lo lasciava ai profittatori.

Si sedette a un tavolo da solo, ma Desar si unì immediatamente a lui, sorridendo e guardandolo, o meglio, guardando dei punti di fianco a lui con i suoi sconcertanti occhi strabici. — Stato via molto — disse Desar.

— Incarico agricolo. Sei decadi. Come sono andate le cose, qui?

— Magre.

— Diventeranno ancora più magre — disse Shevek, ma senza reale convinzione, poiché egli stava mangiando, e la minestra aveva un gusto straordinariamente buono. Frustrazione, ansia, carestia! dicevano i suoi lobi frontali, sede dell’intelletto; ma il talamo, l’impenitente selvaggio accovacciato nella profonda oscurità del suo cranio, diceva: Cibo ora! Cibo ora! Buono! Buono!

— Visto Sabul?

— No. Sono arrivato tardi ieri notte. — Alzò lo sguardo su Desar e disse, con finta indifferenza: — Takver ha avuto un’assegnazione da carestia; è dovuta partire quattro giorni fa.

Desar annuì, con indifferenza genuina. — Sentito dire. Sentito la riorganizzazione dell’Istituto?

— No. Che succede?

Il matematico allargò sulla tavola le mani lunghe e sottili, e abbassò lo sguardo su di esse. Era sempre stato impacciato nella parola, telegrafico nel parlare; in realtà, balbettava; ma se fosse un balbettio verbale o morale, Shevek non l’aveva mai capito. Come aveva sempre amato Desar senza sapere perché, così c’erano dei momenti in cui Desar gli era stato profondamente antipatico, anche allora senza sapere perché. Questo era uno di tali momenti. C’era doppiezza nell’espressione della bocca di Desar, nei suoi occhi bassi, come negli occhi bassi di Bunub.

— Scossone. Riducono al personale funzionale. Shipeg messo fuori. — Shipeg era un matematico notoriamente stupido che era sempre riuscito, adulando assiduamente gli studenti, a procurarsi un corso su richiesta degli studenti ogni anno. — Mandato via. Qualche istituto regionale.

— Farà meno danni zappando l’holum — disse Shevek. Ora che aveva mangiato, gli pareva che la siccità, in fin dei conti, potesse rendere un servizio all’organismo sociale. Le priorità stavano ritornando nuovamente chiare. Debolezze, punti delicati, punti malati sarebbero stati ripuliti, organi pigri riportati alla loro piena funzione, il grasso sarebbe stato eliminato dalla politica del corpo sociale.

— Ho messo una parola per te, alla riunione di Istituto — disse Desar, alzando lo sguardo, ma senza incontrare, poiché non poteva incontrare, gli occhi di Shevek. E mentre Desar lo diceva, Shevek, anche se non aveva ancora capito cosa intendesse dire, seppe che Desar mentiva. Lo seppe con certezza. Desar non aveva messo una parola per lui, bensì una parola contro di lui.

La spiegazione dei momenti in cui detestava Desar gli apparve chiara, ora: il riconoscimento, mai ammesso in precedenza, dell’elemento di pura malvagità presente nella personalità di Desar. Che Desar lo amasse e cercasse di ottenere potere su di lui era altrettanto chiaro, e, per Shevek, altrettanto detestabile. Le strade trasverse della possessività, i labirinti dell’amore/odio, non avevano significato per lui. Arrogante, intollerante, egli passava direttamente attraverso i loro muri. Non parlò più con il matematico; terminò la colazione e si avviò verso il lato opposto del quadrilatero, nel chiaro mattino del primo autunno, in direzione degli uffici di Fisica.

Si recò nella stanza posteriore che tutti chiamavano «ufficio di Sabul», la stanza dove s’erano incontrati la prima volta, dove Sabul gli aveva dato la grammatica e il dizionario iotici. Sabul guardò con diffidenza da dietro la scrivania, alzando la testa, poi la riabbassò, indaffarato con le sue carte, da scienziato distratto, che lavora duramente; poi permise alla coscienza della presenza di Shevek di filtrare nel suo cervello sovraccarico; infine divenne, per uno come lui, espansivo. Sembrava dimagrito e invecchiato; quando si alzò, zoppicò più del solito: un difetto di andatura che aveva un effetto pacificante. — Brutti tempi — disse. — Brutti tempi!

— E peggioreranno — disse Shevek, in tono leggero. — Come vanno le cose, qui?

— Male, male. — Shevek scosse la testa grigia. — È un brutto momento per la pura scienza, per l’intellettuale.

— Perché, c’è mai stato un momento buono?

Sabul emise una risata innaturale.

— È arrivato qualcosa per noi nelle spedizioni estive da Urras? — chiese Shevek, facendo spazio sulla panca per sedersi. Si sedette e incrociò le gambe. La sua pelle chiara si era abbronzata e la fine peluria che gli copriva la faccia si era schiarita fino a un colore bianco argenteo mentre lavorava nei campi del Sud. Aveva un aspetto frugale, robusto, e giovane, a confronto di quello di Sabul. Entrambi erano coscienti del contrasto.


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