— Niente d’interessante.

— Nessuna recensione dei Principi?

— No. — Il tono di Sabul era sgarbato, più adatto alla sua normale personalità.

— Nessuna lettera?

— No.

— Strano.

— Perché, che c’è di strano? Cosa ti aspettavi, un invito alla Università di Ieu Eun? il premio Seo Oen?

— Mi aspettavo recensioni e repliche. Il tempo c’è stato. — Disse questo mentre Sabul diceva: — Non è ancora passato abbastanza tempo per le recensioni.

Ci fu una pausa.

— Devi comprendere, Shevek, che la semplice convinzione di essere nel giusto non costituisce la propria giustificazione. Hai lavorato duramente sul libro, lo so. E anch’io ho lavorato duramente per correggerlo, cercando di rendere chiaro che non era soltanto un attacco irresponsabile contro la Sequenza, ma che aveva anche degli aspetti positivi. Ma se altri fisici non vedono alcun valore nel tuo lavoro, allora devi cominciare a esaminare i valori che sostieni, e a vedere dove sta la divergenza. Se non significa nulla per l’altra gente, a che cosa vale? Qual è la sua funzione?

— Io sono un fisico, non un analista di funzioni — disse Shevek, gentilmente.

— Ogni Odoniano deve essere un analista di funzioni. Hai trent’anni, no? Alla tua età un uomo dovrebbe sapere non soltanto la propria funzione cellulare, ma anche la sua funzione organica… quale sia il suo ruolo ottimale nell’organismo sociale. Forse non ti è occorso di pensarci tanto quanto altra gente…

— No. Fin da quando avevo dieci o dodici anni sapevo già il tipo di lavoro che dovevo fare.

— Quel che un ragazzo pensa gli piacerà fare non è sempre la cosa di cui la sua società ha bisogno da lui.

— Ho trent’anni, come hai detto anche tu. Un po’ grandicello, come ragazzo.

— Hai raggiunto questa età in un ambiente particolarmente difeso, protetto. Prima l’Istituto Regionale Settentrionale…

— E un progetto d’imboschimento, e progetti agricoli, e addestramento pratico, e comitati d’isolato, e lavoro volontario dall’inizio della siccità; la solita quota di kleggich necessario. Anzi, in realtà non mi dispiace. Ma faccio anche la fisica. Dove vuoi arrivare?

Poiché Sabul non gli rispondeva e si limitava a guardarlo e ad aggrottare le sopracciglia folte e untuose, Shevek aggiunse: — Potresti anche dirlo chiaro, visto che non ci puoi arrivare facendo appello alla mia coscienza sociale.

— Pensi che il lavoro da te compiuto all’Istituto sia funzionale?

— Sì. «Tanto più grande è l’ambito organizzato, tanto più centrale è l’organismo: la centralità qui implica il campo della funzione reale.» Tomar, Definizioni. Poiché la fisica temporale tenta di organizzare ogni cosa comprensibile alla mente umana, essa è per definizione una attività centralmente funzionale.

— Non mette pane in bocca alla gente.

— Ho appena terminato sei decadi di lavoro per contribuire a farlo. Quando sarò di nuovo chiamato a farlo, andrò di nuovo. Intanto resto fedele al mio lavoro. Se c’è della fisica da fare, rivendico il mio diritto a farla.

— La cosa di cui devi renderti conto, è il fatto che a questo punto non c’è fisica da fare. Non il tipo di fisica che fai tu. Dobbiamo limitarci alla praticità. — Sabul cambiò posizione sulla sedia. Aveva un aspetto scontroso e inquieto. — Abbiamo dovuto lasciare libere cinque persone per una nuova assegnazione. Mi spiace dirti che sei una di loro. Ecco come stanno le cose.

— Proprio come pensavo che stessero — disse Shevek, anche se in realtà non aveva compreso fino a quel momento che Sabul lo cacciava via dall’Istituto. Non appena udite quelle parole, però, gli parve che la notizia gli fosse già nota; e non era disposto a dare a Sabul la soddisfazione di vederlo sconvolto.

— Ciò che ha lavorato contro di te è stata una combinazione di cose. La natura astrusa, irrilevante, della ricerca da te compiuta in questi ultimi anni. Più una certa sensazione, non necessariamente giustificata, ma diffusa tra molti membri, insegnanti e studenti, dell’Istituto, che tanto il tuo insegnamento quanto il tuo comportamento riflettano una certa disaffezione, un grado di privatismo, di non altruismo. Così è stato detto in riunione. Io ho parlato a tuo favore, naturalmente. Ma io sono soltanto un membro tra tanti altri.

— Da quando in qua l’altruismo è una virtù Odoniana? — disse Shevek. — Bene, lasciamo perdere. Capisco cosa intendi dire. — Si alzò. Non riusciva più a stare seduto, ma per tutto il resto era pienamente in controllo di sé, e parlava con perfetta naturalezza. — Devo pensare che non mi hai raccomandato per un posto d’insegnamento altrove.

— A cosa sarebbe servito? — disse Sabul, quasi melodioso nella propria discolpa. — Nessuno vuole nuovi insegnanti. Insegnanti e studenti lavorano fianco a fianco, in lavori di prevenzione della carestia su tutto il pianeta. Ma, naturalmente, questa crisi non durerà. In un anno o giù di lì potremo guardarla dal di fuori, orgogliosi dei sacrifici da noi fatti e del lavoro da noi compiuto, l’uno a fianco dell’altro, ciascuno una parte uguale. Ma ora come ora…

In piedi, rilassato, Shevek fissava dalla finestra piccola e graffiata il cielo spoglio. C’era un prepotente desiderio, in lui, di dire a Sabul, definitivamente, di andare all’inferno. Ma fu un impulso diverso, più profondo, a trovare parole. — In realtà — disse, — hai probabilmente ragione. — Così detto, rivolse un cenno del capo a Sabul e uscì.

Prese un omnibus diretto verso il centro. Aveva ancora fretta, si sentiva incalzato. Seguiva lo schema delle cose, e desiderava giungerne alla fine, giungere al riposo. Si recò agli uffici Centrali d’Assegnazione della Divisione del Lavoro per richiedere un’assegnazione alla comunità dove era andata Takver.

DivLab, con i suoi calcolatori e il suo vasto compito di coordinazione, occupava un’intera piazza; i suoi edifici erano belli, imponenti per la norma anarresiana, con delle linee eleganti e spoglie. All’Interno, l’Assegnazione Centrale era simile a un granaio con un alto soffitto, era piena di gente e di attività, con le pareti ricoperte di avvisi di assegnazione e di informazioni riguardanti il banco o il dipartimento a cui chiedere questo o quello. Mentre Shevek attendeva in una delle code, ascoltò le persone che lo precedevano, un ragazzo di sedici anni e un uomo sulla sessantina. Il ragazzo si offriva volontario per un’assegnazione di prevenzione della carestia. Era pieno di nobili sentimenti, traboccava di fratellanza, desiderio d’avventura, speranza. Era felice di andarsene via da solo, lasciando dietro di sé l’infanzia. Parlava molto, come un bambino, con una voce non ancora abituata ai toni più profondi. Libertà, libertà! suonavano le sue frasi eccitate, ogni parola; e la voce del vecchio la contrastava con il suo brontolio e il suo rimbombo: lo stuzzicava senza però minacciare, lo prendeva in giro senza però disarmarlo. La libertà, la possibilità di andare in qualche luogo e di fare qualche cosa, la libertà era ciò che il vecchio apprezzava e amava nel giovane, anche mentre ne derideva la presunzione. Shevek li ascoltò con piacere. Ponevano fine alla teoria di figure grottesche da lui incontrata nel corso della mattinata.

Non appena Shevek spiegò dove desiderasse andare, l’impiegata fece la faccia preoccupata e si recò a prendere un atlante, che poi aprì sul banco in mezzo a loro. — Guarda qui — disse. Era una donna piccina e brutta con incisivi sporgenti; le sue mani sulle pagine colorate dell’atlante erano svelte e soffici. — Questa è Rolny, vedi, la penisola che sporge nel Nord Temeniano. È soltanto un grosso mucchio di sabbia. Non c’è niente su di essa, ad eccezione dei laboratori marini, laggiù in punta, capisci? Poi la costa è tutta paludi e acquitrini salmastri finché non fai tutto il giro e arrivi ad Armonia… mille chilometri. E ad ovest c’è solo il Montante Costiero. Il punto più vicino a Rolny che potresti raggiungere sono certe cittadine delle montagne. Ma laggiù non hanno chiesto nessuna assegnazione di emergenza; sono autosufficienti. Certo, potresti andarci lo stesso… — aggiunse, in un tono leggermente diverso.


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