— Alla fine, la verità si pregia di servire soltanto il bene comune — disse Keng.

— Alla fine, sì, ma io non ho voglia di aspettare questa fine. Io ho una sola vita e non intendo spenderla per l’avidità, il profitto e le menzogne. Io non intendo servire nessun padrone.

La calma di Keng era qualcosa di molto più forzato, voluto, di quanto non lo fosse stata all’inizio della loro conversazione. La forza della personalità di Shevek, non frenata da alcun imbarazzo e da alcuna considerazione apologetica, era terribile. Ella era rimasta scossa dalle sue parole, e lo fissava commossa e un po’ in soggezione.

— Com’è — domandò, — come può essere, la società che l’ha fatta, Shevek? L’ho sentita parlare di Anarres, nella Piazza, e ho pianto nell’ascoltare le sue parole, ma in realtà non le ho creduto completamente. Gli uomini parlano sempre così della loro casa, della loro terra lontana… Ma lei non è affatto come gli altri. In lei c’è una differenza.

— La differenza dell’idea — egli disse. — Ed è per questa idea, inoltre, che sono venuto qui. Per Anarres. Poiché il mio Popolo si rifiuta di guardare all’esterno, ho pensato che avrei potuto indurre gli altri a guardare noi. Pensavo che sarebbe stato meglio, anziché tenerci lontano, dietro un muro, essere una società come le altre, un pianeta tra gli altri, che dà e che prende. Ma qui mi sbagliavo… mi sbagliavo da cima a fondo.

— Perché? Certamente…

— Perché non c’è nulla, assolutamente nulla su Urras di cui noi anarresiani abbiamo bisogno! Noi lo lasciammo con le mani vuote, cento e settanta anni fa, e avemmo ragione. Noi non prendemmo nulla. Poiché qui non c’è altro che gli Stati e le loro armi, i ricchi e le loro bugie, e i poveri e la loro miseria. Non c’è modo di agire rettamente, con un cuore trasparente, su Urras. Non c’è nulla che possiate fare in cui non entrino il profitto, e la paura di una perdita, e il desiderio di potere. Non puoi dire buongiorno a una persona senza sapere chi di voi è «superiore» all’altro, o senza cercare di dimostrarlo. Non puoi agire come un fratello verso le altre persone; devi manipolarle, o comandarle, o obbedire loro, o imbrogliarle. Non puoi toccare un’altra persona, eppure non ti lasceranno mai solo. Non c’è libertà. È una scatola… Urras è una scatola, un pacchetto, con tutta la sua meravigliosa confezione del cielo turchino e dei prati e delle foreste e delle grandi città. E tu apri la scatola, e cosa ci trovi dentro? Una cantina buia piena di polvere, e un uomo morto. Un uomo cui fu troncata la mano perché la tendeva agli altri. Sono stato nell’inferno, infine. Desar aveva ragione; è Urras; l’inferno è Urras.

Nonostante tutta la sua passione, egli parlava semplicemente, con una sorta di umiltà, e anche ora l’Ambasciatrice della Terra lo osservò con meraviglia, leggermente guardinga ma con piena comprensione, come se non sapesse come accogliere quella semplicità.

— Siamo entrambi stranieri, qui, Shevek — disse infine. — E io vengo da assai più lontano nel tempo e nello spazio. Eppure comincio a pensare di essere meno straniera a Urras di quanto non lo sia lei… Mi permetta di dirle come appare, a me, questo mondo. Per me, e per tutti i miei colleghi della Terra che hanno visto questo pianeta, Urras è il più gentile, il più vario, il più bello dei mondi abitati. È il mondo che più si avvicina, nei limiti del possibile, al paradiso.

Lo fissò con calma e con profondità; egli non disse nulla.

— So che è pieno di mali, pieno di ingiustizia umana, avidità, follia, sprechi. Ma è anche pieno di bene, di bellezza, di vitalità, di successi! È come un pianeta dovrebbe essere! È vivo, tremendamente vivo… vivo, nonostante tutti i suoi mali, di speranza. Non è vero?

Egli annuì.

— Ora, lei, uomo di un mondo che io non so neppure immaginare, lei che vede il mio paradiso come l’inferno, vuol chiedermi com’è invece il mio mondo?

Egli non disse nulla; la fissava attentamente, i suoi occhi chiari erano impassibili.

— Il mio mondo, la mia Terra, è una rovina. Un pianeta rovinato dalla specie umana. Ci siamo moltiplicati e ci siamo ingozzati e abbiamo combattuto finché non è rimasto più nulla, e poi siamo morti. Non abbiamo controllato né gli appetiti né la violenza; non ci siamo adattati. Abbiamo distrutto noi stessi. Ma prima abbiamo distrutto il nostro mondo. Non rimangono più foreste sulla mia Terra. L’aria è grigia, il cielo è grigio, fa sempre caldo. È abitabile, è ancora abitabile, ma non come questo mondo. Questo è un mondo vivo, un’armonia. Il mio è una dissonanza. Voi Odoniani avete scelto un deserto; noi Terrestri abbiamo fatto un deserto… Laggiù noi sopravviviamo, come voi. La gente è resistente! C’è quasi mezzo miliardo di noi. Una volta ce n’erano nove miliardi. Puoi vedere ancora dappertutto le vecchie città. Le ossa e i mattoni vanno in polvere, ma i piccoli pezzi di plastica no… anch’essi non s’adattano. Noi abbiamo fallito come specie, come specie sociale. Noi siamo qui, ora, a trattare da pari a pari con le altre società umane sugli altri mondi, soltanto grazie alla carità degli Hainiti. Essi vennero da noi; essi ci portarono aiuto. Costruirono navi e ce le donarono, in modo che potessimo lasciare il nostro mondo rovinato. Ci trattano gentilmente, caritatevolmente, come un uomo forte può trattare uno malato. Sono un popolo molto strano, gli Hainiti; più antichi di qualsiasi altro; infinitamente generosi. Sono degli altruisti. Sono spinti da un sentimento di colpa che noi non riusciamo neppure a capire, nonostante tutti i nostri crimini. Essi sono spinti, in tutto ciò che fanno, io credo, dal passato, dal loro interminabile passato. Ebbene, abbiamo salvato il salvabile, e organizzato una sorta di vita nelle rovine, su Terra, nell’unico modo in cui la si poteva organizzare: centralizzazione totale. Totale controllo sull’uso di ogni acro di terreno, ogni pezzo di metallo, ogni grammo di carburante. Totale razionamento, controllo delle nascite, eutanasia, coscrizione universale nella forza lavoro. L’assoluta irreggimentazione di ciascuna vita per raggiungere la meta della sopravvivenza razziale. Eravamo arrivati a questo, quando giunsero gli Hainiti. Essi ci portarono… un po’ più di speranza. Non molta. Noi l’abbiamo oltrepassata… Noi possiamo soltanto guardare a questo splendido mondo, a questa vitale società, a questo Urras, questo paradiso, dall’esterno. Siamo capaci solo di ammirarlo, e forse di invidiarlo un poco. Non molto.

— Allora Anarres, come l’avete sentita descrivere da me… che cosa significherebbe Anarres per lei, Keng?

— Nulla. Nulla, Shevek. Abbiamo perduto per sempre la possibilità di una Anarres secoli fa, prima ancora che Anarres venisse alla vita.

Shevek si alzò e si recò alla finestra, una delle lunghe feritoie orizzontali della torre. C’era una nicchia nel muro, sotto la feritoia, su cui salivano gli arcieri per guardare in basso e prendere di mira gli assalitori del ponte; se non si saliva su di essa, non si poteva vedere nulla dalla feritoia, ad eccezione del cielo illuminato dal sole, leggermente coperto di foschia. Shevek si fermò sotto la finestra e guardò fuori, con la luce che gli riempiva gli occhi.

— Lei non capisce che cos’è il tempo — disse. — Lei dice che il passato se n’è andato, il futuro non è reale, non c’è cambiamento, non c’è speranza. Lei pensa che Anarres sia un futuro che non può essere raggiunto, esattamente come il vostro passato non può essere cambiato. Dunque non c’è nient’altro che il presente, questo Urras, il presente ricco, reale, stabile, il momento attuale. E lei pensa che è qualcosa che si può possedere! Lei lo invidia un poco. Lei pensa che sia qualcosa che le piacerebbe avere. Ma non è reale, lo sa. Non è stabile, non è solido… nulla lo è. Le cose cambiano, cambiano. Lei non può avere nulla… E meno di tutto può avere il presente, a meno che non accetti con esso anche il passato e il futuro. Non soltanto il passato, ma anche il futuro, non soltanto il futuro, ma anche il passato! Perché essi sono reali: soltanto la loro realtà rende reale il presente. Non otterrete, non comprenderete neppure, Urras se non accetterete la realtà; la realtà duratura, di Anarres. Lei ha ragione, noi siamo la chiave. Ma quando l’ha detto, lei non vi credeva realmente. Lei non crede in Anarres, lei non crede in me, anche se io sono qui con lei, in questa stanza, in questo momento… La mia gente aveva ragione, e io mi sbagliavo: noi non possiamo venire a voi. Voi stessi non ce lo permettereste. Voi non credete nel cambiamento, nel caso, nell’evoluzione. Voi distruggereste, piuttosto di ammettere la nostra realtà, piuttosto di ammettere che c’è speranza! Noi non possiamo venire a voi. Noi possiamo soltanto aspettare che voi veniate da noi.


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