— Il vostro Gruppo dell’Iniziativa — disse, sottolineando l’aggettivo «vostro», — ha proceduto a costruire un trasmettitore, a trasmettere a Urras e a ricevere da questo, e a pubblicare le comunicazioni. Tutto ciò è stato da voi compiuto contrariamente alle opinioni della maggioranza del CDP, e alle crescenti proteste di tutta la Fratellanza. Non ci sono state ancora rappresaglie contro la vostra attrezzatura o contro voi stessi, soprattutto, io credo, per il fatto che noi Odoniani ci siamo disabituati alla stessa idea che qualcuno adotti un corso d’azioni dannoso agli altri e persista in esso a dispetto degli avvisi e delle proteste. È un evento assai raro. In realtà, voi siete i primi di noi che si siano comportati nel modo sempre predetto dai critici archisti quando parlavano del comportamento dei membri di una società priva di leggi: con totale mancanza di responsabilità nei riguardi del bene della società. Non intendo ritornare sul danno da voi già compiuto, il passaggio di informazioni scientifiche a un nemico potente, la confessione della nostra debolezza rappresentata da ciascuna delle vostre trasmissioni a Urras. Ma ora, ritenendo che ci siamo già assuefatti a tutto questo, voi proponete qualcosa di assai peggiore. Che differenza ci può essere, voi direte, tra parlare con alcuni urrasiani sulle onde corte e parlare con alcuni di essi qui ad Abbenay? Qual è la differenza? Qual è la differenza tra una porta chiusa e una porta aperta? Apriamo la porta… ecco che cosa ci dite, voi lo sapete, ammari. Apriamo la porta, lasciamo venire gli urrasiani! Sette o otto pseudo Odoniani sul prossimo mercantile. Settanta o ottanta profittatori iotici su quello che verrà dopo, per esaminarci bene e vedere come ci possono suddividere come proprietà tra le nazioni di Urras. E col viaggio seguente verranno settecento o ottocento navi da guerra armate: cannoni, soldati, una forza d’occupazione. Fine di Anarres, fine della Promessa. La nostra speranza giace, da centosettant’anni, nei Termini dell’Insediamento: Nessun urrasiano scenderà dalle navi, eccetto i Coloni, né allora né mai. Nessuna mescolanza. Nessun contatto. Abbandonare quel principio ora, equivale a dire ai tiranni che un tempo abbiamo sconfitto: L’esperimento è fallito, venite di nuovo a renderci schiavi.

— Niente affatto — disse subito Bedap. — Il messaggio è chiaro: L’esperimento è riuscito, ora siamo abbastanza forti da affrontarvi come uguali.

La discussione continuò come prima, un rapido martellare di botta e risposta. Non durò a lungo. Non si fece una votazione, come al solito. Quasi tutti i presenti sostenevano fortemente il rispetto dei Termini dell’Insediamento, e non appena questo divenne chiaro, Bedap disse: — D’accordo, ritengo chiusa la questione. Nessuno verrà qui con il Forte di Kuieo o il Pensiero. Sulla questione di portare urrasiani su Anarres, l’intenzione del Gruppo deve chiaramente cedere all’opinione complessiva della società: abbiamo chiesto il vostro parere e lo seguiremo. Ma c’è un altro aspetto della stessa questione. Shevek?

— Be’, c’è la questione — disse Shevek, — di mandare un anarresiano su Urras.

Si alzarono esclamazioni e domande. Shevek non alzò la voce, che era poco più di un mormorio, e continuò: — Non farebbe alcun danno e non minaccerebbe nessuno che viva su Anarres. E mi pare che sia una questione di diritti individuali; una specie di prova di questi diritti, in effetti. I Termini dell’Insediamento non lo proibiscono. Proibirlo ora sarebbe un’assunzione di autorità da parte del CDP, una restrizione del diritto dell’individuo Odoniano di dare inizio ad azioni innocue per gli altri.

Rulag si sporse in avanti, senza alzarsi dalla sedia. Sorrideva un poco. — Ciascuno è libero di lasciare Anarres — disse. I suoi occhi chiari passarono da Shevek a Bedap e a Shevek. — Può andare dove vuole, se le navi dei proprietaristi sono disposte a prenderlo. Ma non può tornare indietro.

— Chi dice che non può? — chiese Bedap.

— I Termini della Chiusura dell’Insediamento. Nessuno potrà allontanarsi dalle navi mercantili al di là della cinta del Porto di Anarres.

— Su, via, nelle intenzioni, questo si doveva certamente riferire agli urrasiani, non agli anarresiani — disse un vecchio consigliere, Ferdaz, che amava tuffare nell’acqua il proprio remo anche se esso allontanava la barca dalla rotta da lui voluta.

— Urrasiano è chi viene da Urras — disse Rulag.

— Legalismi, legalismi! Cosa sono tutti questi cavilli? — disse una donna calma, pesante, chiamata Trepil.

— Cavilli! — gridò il nuovo membro, il giovane. Aveva l’accento degli Altipiani del Nord e una voce profonda, forte. — Se non ti piacciono i cavilli, senti questo. Se quaggiù ci sono delle persone a cui non piace Anarres, lasciatele andare. Darò una mano anch’io. Le porterò io stesso al Porto, ce le spingerò a calci! Ma se cercheranno di strisciare indietro, troveranno alcuni di noi, laggiù, ad aspettarle. Alcuni veri Odoniani. E non li troveranno sorridenti, a dire: «Benvenuti a casa, fratelli.» Si troveranno i denti cacciati in gola a pugni, le balle rincalcate in pancia a calci. Questo lo capite? È abbastanza chiaro per tutti?

— Chiaro, no; aperto, sì. Aperto come una scorreggia — disse Bedap. — La chiarezza è una funzione del pensiero. Dovresti imparare un po’ di Odonianesimo, prima di aprire la bocca qui dentro.

— Tu non sei degno di pronunciare il nome di Odo! — urlò il giovane. — Tu sei un traditore, tu e tutto il tuo Gruppo! Su tutta Anarres ci sono persone che vi sorvegliano. Tu pensi che noi non sappiamo che a Shevek è stato chiesto di andare su Urras, di andarci per vendere la scienza anarresiana ai profittatori? Credi che non sappiamo che tutti voi piagnoni vorreste andarci per vivere la vita dei ricchi e farvi battere manate sulle spalle dai proprietaristi? Potete andare! Grazie per averci liberati di voi! Ma se cercherete di ritornare nuovamente qui, farete l’incontro con la giustizia!

Si era alzato e si sporgeva sul tavolo, urlava direttamente in faccia a Bedap. Bedap alzò lo sguardo su di lui e disse: — Tu non vuoi dire giustizia, tu vuoi dire punizione. Credi che siano la stessa cosa?

— Vuol dire violenza — disse Rulag. — E se ci sarà violenza, l’avrete causata voi. Voi e il vostro Gruppo. E ve la sarete meritata.

Un uomo sottile, piccolo, di mezza età, vicino a Trepil, cominciò a parlare, dapprima così piano, con una voce resa roca dalla tosse da polvere, che pochi dei presenti lo udirono. Era un osservatore proveniente da un gruppo di minatori del Sudovest, e non ci si aspettava che prendesse la parola su quell’argomento. — … si meriti un uomo — stava dicendo. — Poiché ciascuno di noi merita ogni cosa, ogni lusso che fu mai accumulato nelle tombe dei defunti sovrani, e ciascuno di noi non merita nulla, neppure un boccone di pane quando ha fame. Non abbiamo noi forse mangiato mentre un altro moriva di fame? Ci punirete per questo? Ci premierete per la virtù di morire di fame mentre altri mangiava? Nessun uomo si merita una punizione, nessun uomo si merita un premio. Liberate la vostra mente dall’idea del meritare, e allora comincerete a essere capaci di pensare. — Si trattava, naturalmente, di parole di Odo tratte dalle Lettere dalla Prigione, ma così pronunciate, dalla voce debole, roca del minatore, facevano uno strano effetto, come se le concepisse egli stesso in quel momento, parola per parola: come se provenissero dal suo stesso cuore, lentamente, con difficoltà, così come l’acqua sgorga lentamente, lentissimamente, dalle sabbie del deserto.

Rulag ascoltò, con la testa eretta, il viso teso come quello di una persona che cerca di vincere un dolore. Di fronte a lei, dall’altro lato del tavolo, Shevek era ancora seduto, con la testa china. Le parole lasciarono dietro di sé un silenzio, ed egli alzò lo sguardo e parlò in quel silenzio.

— Vedete — disse, — la cosa che noi cerchiamo è di ricordare a noi stessi che non siamo venuti su Anarres per la sicurezza, ma per la libertà. Se dobbiamo essere tutti d’accordo, tutti lavorare insieme, allora non siamo migliori di una macchina. Se un individuo non può lavorare in solidarietà con i suoi colleghi, allora è suo dovere lavorare da solo. Suo dovere e suo diritto. Noi stiamo dicendo, sempre e sempre più spesso: tu devi lavorare con gli altri, tu devi accettare il comando della maggioranza. Ma ogni comando è tirannia. Il dovere dell’individuo è quello di non accettare nessun comando, di essere l’iniziatore dei propri atti, di essere responsabile. Soltanto se egli così farà, la società vivrà, e cambierà, e si adatterà, e sopravviverà. Noi non siamo i sudditi di uno Stato fondato sulla legge, bensì i membri di una società fondata sulla rivoluzione. La rivoluzione è il nostro obbligo: la nostra speranza di evoluzione. «La Rivoluzione è nello spirito individuale, oppure non è da nessuna parte. È per tutto, oppure non è niente. Se la si vede come qualcosa che abbia un fine preciso, una fine precisa, non avrà mai veramente inizio.» Noi non possiamo fermarci qui. Noi dobbiamo proseguire. Dobbiamo assumerci i rischi.


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