Rulag rispose, calma come lui, ma molto freddamente: — Non hai diritto di esporci tutti a un rischio che sei spinto ad assumerti per motivi personali.

— Nessuno che non sia disposto ad andare fino a dove voglio andare io ha diritto di impedirmi di andare — rispose Shevek. I loro occhi si incontrarono per un attimo; entrambi abbassarono lo sguardo.

— Il rischio di un viaggio su Urras non tocca altro che la persona che parte — disse Bedap. — Non cambia nulla dei Termini dell’Insediamento, e nulla del nostro rapporto con Urras, eccetto che, forse, moralmente… a nostro vantaggio. Ma non credo che siamo pronti, che nessuno di noi lo sia, per decidere su questo argomento. Per il momento ritiro la questione, se gli altri sono d’accordo.

Gli altri assentirono, ed egli e Shevek lasciarono la riunione.

— Devo andare all’Istituto — disse Shevek, quando uscirono dall’edificio del CDP. — Sabul mi ha mandato uno dei suoi ritagli delle unghie… il primo dopo anni. Che avrà in mente, mi chiedo?

— Che cosa avrà in mente quella Rulag, mi chiedo io! Quella donna ha del rancore personale nei tuoi riguardi. Invidia, credo. Non bisogna più mettere voi due alla stessa tavola, altrimenti non approderemo mai a niente. E anche quel giovane degli Altipiani del Nord è una brutta novità. Comando della maggioranza e la forza che diventa diritto! Riusciremo a far ascoltare il nostro messaggio, Shevek, o stiamo soltanto facendo irrigidire l’opposizione?

— Forse dovremmo davvero inviare qualcuno su Urras… dimostrare il nostro diritto per mezzo dell’azione, se le parole non basteranno.

— Forse. Purché non si tratti di me! Sono disposto a diventare viola a forza di parlare del nostro diritto di lasciare Anarres, ma se dovessi essere io a farlo, dannazione, mi taglierei la gola.

Shevek rise. — Io devo andare. Sarò a casa tra un’ora, più o meno. Vieni a mangiare con noi questa sera.

— Vado ad aspettarti alla stanza.

Shevek si avviò per la strada con la sua lunga falcata; Bedap rimase fermo davanti all’edificio del CDP, esitante. Si era a metà del pomeriggio, e la giornata primaverile era ventosa, soleggiata, fredda. Le strade di Abbenay erano chiare, terse, vive di luce e di persone. Bedap si sentiva insieme eccitato e abbattuto. Ogni cosa, comprese le sue emozioni, era promettente, ma insoddisfacente. Si avviò in direzione del domicilio dell’isolato Pekesh dove Shevek e Takver abitavano ora, e trovò, come aveva sperato, Takver in casa con la bambina.

Takver aveva abortito due volte e poi era giunta Pilun, tardi e un po’ inattesa, ma assai benvenuta. Era piccola alla nascita, ed ora, avvicinandosi ai due anni, era ancora piccola, con braccia e gambe minute, molto sottili. Quando Bedap la teneva, era sempre vagamente allarmato o respinto dal contatto di quelle braccia, così fragili ch’egli avrebbe potuto romperle con un semplice movimento della mano. Amava molto Pilun, era affascinato dai suoi occhi grigi e nebbiosi, conquistato dalla sua profonda fiducia, ma ogni volta che la toccava, capiva consciamente, come in precedenza non gli era mai occorso, quale sia l’attrazione della crudeltà, perché il forte tormenta il debole. E perciò — sebbene egli non fosse capace di spiegare le ragioni di quel «perciò» — capiva anche una cosa che non aveva mai avuto molto senso per lui, anzi che non l’aveva mai interessato affatto: il sentimento paterno. Provava un piacere straordinario quando Pilun lo chiamava tadde.

Si sedette sulla predella del letto sotto la finestra. Era una stanza di buone dimensioni, con due predelle. Sul pavimento c’era una stuoia; non c’era altro arredamento, né sedie né tavolo, soltanto un piccolo recinto mobile che delimitava uno spazio di gioco o proteggeva il letto di Pilun. Takver aveva aperto il cassetto lungo e largo dell’altra predella, e metteva a posto pile di fogli di carta in esso contenute. — Tienimi Pilun, caro Bedap! — disse con il suo largo sorriso, quando la bambina cominciò ad avviarsi verso di lui. — Mi ha pasticciato questi fogli almeno dieci volte, ogni volta che li ho messi a posto. Qui avrò finito tra un minuto… dieci, anzi.

— Non metterti fretta. Non ho voglia di parlare. Mi basta stare qui a sedere. Vieni qui, Pilun. Cammina… ecco, così si fa! Cammina da Tadde Bedap. Adesso ti ho preso!

Pilun si sedette contenta sulle sue ginocchia e cominciò a studiargli la mano. Bedap si vergognava delle sue unghie, che, anche se non se le rosicchiava più, erano ormai deformate, e dapprima chiuse la mano per nasconderle; poi si vergognò di averne vergogna, e aprì la mano. Pilun cominciò a battervi sopra.

— Questa è una bella stanza — disse. — Con la luce a nord. È sempre tranquillo, qui dentro.

— Sì. Zitto, sto contandoli.

Dopo un poco, Takver mise via le pile di fogli e chiuse il cassetto. — Fatto! Scusa, ma avevo detto a Shevek che avrei messo il numero a quelle pagine. Vuoi bere?

Il razionamento era ancora in forza per molti cibi, anche se era molto meno restrittivo di cinque anni prima. I frutteti degli Altipiani del Nord avevano sofferto meno la siccità, e si erano ripresi più in fretta, delle regioni coltivate a grano, e l’anno precedente la frutta secca e i succhi di frutta erano stati tolti dalla lista delle razioni. Takver aveva una bottiglia sul davanzale della finestra, dietro gli scuri. Ne versò a tutti e due, in tazzine di terracotta un po’ bitorzolute che Sedik aveva fatto a scuola. Si sedette di fronte a Bedap e lo guardò, sorridendo. — Be’, come va al CDP?

— Sempre lo stesso. Come va al laboratorio dei pesci?

Takver fissò la propria tazza, muovendola per guardare il riflesso della luce sulla superficie del liquido. — Non so. Pensavo di andarmene.

— Perché, Takver?

— Meglio andarsene che sentirsi dire di andarsene. Il guaio è che il lavoro mi piace, e che sono anche brava, nel mio campo. Ed è l’unico del suo tipo ad Abbenay. Ma non puoi essere un membro di una squadra di ricerca che ha deciso che non sei un suo membro.

— Se la prendono con te, eh?

— Ed è sempre peggio — disse lei, e lanciò un’occhiata alla porta, rapidamente e meccanicamente, come per assicurarsi che non ci fosse Shevek, ad ascoltare. — Alcuni di loro sono incredibili. Be’, tu sai com’è. Non serve a niente parlarne.

— No, ed è questo il motivo per cui sono lieto di averti trovato da sola. Io, in realtà, non so affatto com’è. Io, e Shevek, e Skovan, e Gezach, e tutti gli altri che passano la maggior parte del tempo alla stamperia o alla torre radio, non abbiamo assegnazioni di lavoro, e perciò non vediamo molta gente al di fuori del Gruppo dell’Iniziativa. Io passo un mucchio di tempo al CDP, ma lì si tratta di una situazione speciale, lì mi aspetto dell’opposizione perché me la creo apposta. Ma, tu, contro che cosa ti sei imbattuta?

— L’odio — disse Takver con la sua voce cupa, bassa. — Vero odio. Il direttore del mio progetto non mi parla più. Be’, non è una gran perdita. Non mi è mai stato simpatico. Ma alcuni degli altri mi dicono ciò che pensano… C’è una donna, non nel laboratorio dei pesci, ma qui nel domicilio. Io sono nel comitato di igiene dell’isolato, e dovevo parlare con lei di qualcosa. Non mi ha lasciato parlare. «Non cercare di entrare in questa stanza, vi conosco, io, voialtri maledetti traditori, voialtri intellettuali, egoizzatori» eccetera eccetera, e poi mi ha sbattuto la porta in faccia. Una scena grottesca. — Takver rise tristemente. Pilun, vedendola ridere, sorrise, raggomitolata nel cavo del braccio di Bedap, e poi sbadigliò. — Ma, sai, mi ha spaventato. Sono codarda, Bedap. Non mi piace la violenza. Non mi piace neppure la disapprovazione!

— Ovviamente no. L’unica sicurezza che abbiamo è l’approvazione dei nostri vicini. Un archista può infrangere una legge e sperare di farla franca, senza subire punizione, ma tu non puoi «infrangere» un costume; è la cornice della tua vita con l’altra gente. Noi stiamo appena cominciando a provare che cosa voglia dire essere dei rivoluzionari, per dirla con le parole usate da Shevek alla riunione di oggi. Non è una cosa comoda.


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