— Io non ho scritto quella roba! — replicò Bernard.
— Allora perché ti agiti tanto, marmocchio? — disse Dap.
— Ieri qualcuno ha mandato in giro un messagio firmato DIO — aggiunse Bernard acremente.
— Sul serio? — chiese Dap. — Guarda, guarda. Non sapevo che Dio fosse inserito nei programmi. — Gli volse le spalle e uscì, e la camerata fu piena di risa divertite.
Il tentativo di Bernard d’eleggersi a piccolo duce del loro gruppo si sfasciò così nel ridicolo: soltanto pochi gli rimasero fedeli. Ma erano i più pervicaci. E Ender seppe che finché si fosse limitato a osservare e attendere per lui sarebbe stata dura. Tuttavia quel giochetto col computer aveva ottenuto un risultato. Bernard era stato rimesso a posto, e tutti i ragazzi che avevano qualche buona qualità erano liberi dalla sua influenza. Ma soprattutto, Ender c’era arrivato senza mandarlo un’altra volta in mano al medico. Molto meglio a questo modo, pensò.
Poi si dedicò al difficile compito d’inserire un migliore sistema di sicurezza nel suo banco, visto che quelli previsti dal normale programma erano evidentemente inadeguati. Se un ragazzino di sei anni poteva farvi breccia, era chiaro che li avevano predisposti per eseguire una routine senza garanzie di riservatezza. Soltanto un altro gioco che gli insegnanti hanno studiato per noi. Ed è un gioco a cui sono bravo.
— Come ci sei riuscito? — gli chiese Shen, a colazione.
Ender prese nota con calma che per la prima volta un ragazzino della sua classe veniva a sedersi a tavola accanto a lui. — Riuscito a far cosa? — domandò.
— A mandare un messaggio con un nome falso. E poi con quello di Bernard! È stata grande. Adesso lo soprannominano Il Guardaculi. Davanti all’insegnante lo chiamano solo Il Guarda, ma tutti sanno che cosa guarda.
— Povero Bernard — mormorò Ender. — Pensare che è così sensibile.
— Avanti, Ender. Tu ti sei inserito nel programma. Come hai fatto?
Ender scosse il capo e sorrise. — Grazie per aver pensato che io sia tanto abile da riuscirci. L’ho soltanto visto per primo, questo è tutto.
— D’accordo, non sei costretto a dirmelo — annuì Shen. — Comunque è stata grande. — Per un poco mangiò in silenzio. — Sul serio faccio ondeggiare il sedere quando cammino?
— Ma no — disse Ender. — Appena un poco. Solo, bada a non fare quei passi così lunghi, e sarai a posto.
Shen annuì.
— L’unico che l’abbia notato è stato Bernard.
— È un maiale — disse Shen.
Ender scosse le spalle. — Evita i maiali e non ne sentirai il puzzo.
Shen rise. — Hai ragione. Io pure li individuo a naso.
Risero entrambi, guardandosi, e altri due ragazzini del loro gruppo vennero a sedersi accanto ad essi. L’isolamento di Ender era finito. La guerra era soltanto nella sua fase iniziale.
CAPITOLO SESTO
IL GIGANTE
— In passato abbiamo avuto fin troppe delusioni. Ce li alleviamo per anni, li facciamo ballare sul filo del rasoio sperando ansiosamente che se la cavino, e poi loro non ce la fanno. Ma con Ender sarà tutto più semplice: sembra deciso a finire congelato entro i prossimi sei mesi.
— Ah!
— Non vede quello che sta succedendo? Si è fissato su uno dei test mentali, il Drink del Gigante. Il ragazzo ha per caso tendenze suicide? Lei non ne ha mai parlato.
— Tutti si cimentano col Gigante, una volta o l’altra.
— Ma Ender rifiuta di cedere. Come Pinual.
— Tutti reagiscono un po’ come Pinual, prima o poi. Ma lui resta il solo che si è suicidato. E non credo che la cosa fosse collegata al Drink del Gigante.
— Lei ci sta scommettendo la mia carriera. E guardi cos’ha combinato col suo gruppo.
— Sa bene che non è stata colpa sua.
— Non m’importa, Colpa sua o meno, sta avvelenando quel gruppo. Si presume che i membri di un gruppo debbano sentirsi uniti, ma dove entra lui si aprono abissi larghi un miglio.
— Non progetto di lasciarlo lì a lungo, comunque.
— Allora, meglio che riveda i suoi progetti. Quel gruppo si è ammalato, e lui ne è stato il virus. Ma non è allontanandolo che potremo curare gli altri. Al contrario, deve restare.
— Sono stato io a causare questa malattia. L’ho isolato dagli altri, e l’effetto non è mancato.
— Gli dia tempo. Vediamo se riesce a sbrogliare la situazione.
— Di tempo non ne abbiamo.
— Dobbiamo averlo, visto che si tratta di capire se abbiamo per le mani uno che ha le stesse probabilità di diventare un genio militare oppure un mostro.
— Questo è un ordine?
— Stiamo registrando. Si registra tutto, qui. Il suo collo è ben protetto. E adesso vada all’inferno.
— Se si tratta di un ordine, io…
— È un ordine. Lo lasci dov’è, e stiamo a vedere come se la cava col suo gruppo. Graff, lei mi farà venire l’ulcera.
— Non rischierebbe l’ulcera se lasciasse la Scuola a me, e andasse a occuparsi della Flotta lei personalmente.
— La Flotta ha bisogno di un comandante che sappia portarla in battaglia. Non c’è niente di cui occuparsi, finché lei non me ne darà uno.
Entrarono nella Sala di Battaglia in fila per uno e con aria spaesata, come bambini condotti in piscina per la prima volta, tenendosi stretti ai corrimano lungo il perimetro. La gravità zero li metteva a disagio e li disorientava. Presto s’accorsero che le cose erano più facili se evitavano del tutto di usare i piedi.
Inoltre, dentro le tute si sentivano isolati. Era difficile compiere movimenti precisi, perché lo spesso tessuto si piegava male e opponeva più resistenza di qualunque altra cosa avessero mai indossato.
Ender si aggrappò alla ringhiera e fletté le ginocchia. Aveva già notato che malgrado lo spessore la tuta amplificava i movimenti in modo strano. Era difficile iniziarli, ma poi le gambe della tuta continuavano a muoversi, e con forza, anche dopo che i muscoli s’erano fermati. Fai un gesto con una certa forza, e lei te lo porta avanti con forza doppia. Per un po’ sarò scoordinato. Meglio che stia attento.
Così, senza mollare il corrimano, si diede un’energica spinta con i piedi.
All’istante le sue gambe balzarono in alto, ruotò intorno alla ringhiera e andò a urtare nel muro col fondo della schiena. Il rimbalzo fu ancora più forte, o così gli parve: le mani persero la presa e Ender volò via attraverso la sala di battaglia, sbattendo in ogni ostacolo che gli si parò davanti.
Per qualche terribile momento tentò di capire dove fossero l’alto e il basso, o meglio a tentarlo fu il suo corpo, in cerca di una gravità che non esisteva. Poi si costrinse a orientarsi su nuovi punti di vista. Stava andando a sbattere in una parete. Quello era il suo basso. E non volava, si disse: cadeva, era a metà di un tuffo. Spettava a lui scegliere in che modo urtare su quella superficie.
Sto andando troppo veloce per cercare una presa e fermarmi, ma posso ammorbidire l’impatto. Posso calcolare il tempo della rotazione, e nell’istante dell’urto usare i piedi per…
La cosa non andò come aveva pronosticato. La velocità con cui roteava era fuori dalle sue possibilità di manovra, e non ebbe neppure il tempo di considerarne le conseguenze. Volò a sbattere in un’altra parete, stavolta troppo vicina perché potesse prepararsi all’urto. Ma del tutto casualmente scoprì l’esistenza di un principio di dinamica: avvolgendosi a palla ruotava più velocemente, distendendosi rallentava la rotazione inerziale. Adesso stava di nuovo attraversando l’immenso locale, in direzione dei suoi compagni ancora aggrappati al corrimano. Scoperto il segreto per ruotare lentamente calcolò che sarebbe riuscito ad aggrapparsi da qualche parte. L’angolazione con cui vedeva gli altri ragazzi era un po’ folle, ma il suo orientamento s’era di nuovo riadattato e per quanto lo riguardava essi stavano ora distesi su un pavimento, non già in piedi lungo un muro, e lui non era più capovolto di quel che lo fossero loro.