Ender fu il loro primo nemico.

Piccole cose. Un calcio che gli disfaceva il letto ogni volta che entravano e uscivano dalla porta. Uno sgambetto mentre andava al tavolo col vassoio del pranzo. Pestoni sulle mani quando salivano le scale a pioli. Ender ci mise poco a imparare che non doveva lasciare niente di suo fuori dagli armadietti, e dovette anche imparare a stare all’erta per non finire a gambe all’aria d’improvviso. «Sbadatroccolo» lo chiamò una volta Bernard, per trovargli un soprannome sprezzante.

Ci furono momenti in cui Ender conobbe il tormento della rabbia. Ma contro Bernard, naturalmente, la sola rabbia non bastava. Era il tipo di ragazzo che era: un torturatore. Ciò che irritava Ender era il vedere con quale acquiescenza gli altri si associavano a lui. Senza dubbia essi dovevano capire che la sua voglia di vendicarsi era ingiusta. Senza dubbio sapevano che era stato lui a colpire per primo Ender sulla navetta, e che Ender s’era limitato a rispondere a un sopruso. Ma se lo sapevano, agivano come se le cose stessero al contrario. E anche quelli che non lo sapevano avrebbero dovuto capire da una sua sola parola che Bernard era un serpente velenoso.

Ma Ender non costituiva il suo unico bersaglio. Ciò che Bernard stava costruendo era un piccolo regno, con una sua piccola corte.

Sempre ai bordi del gruppo, isolato dai compagni, Ender assistette alle manovre di Bernard che stabiliva il rango dei suoi cortigiani. Alcuni ragazzi gli erano utili, e lui li ricopriva di melassa. Altri avevano l’istinto di servire, e gli ubbidivano ciecamente anche quando li maltrattava sprezzantemente.

Ma c’era anche chi s’irritava ai modi di Bernard.

Bastava osservarlo per vedere chi altri prendeva di mira. Shen era piccolo, ambizioso e molto suscettibile. Questo particolare era stato notato subito da Bernard, che aveva preso a soprannominarlo Verme.

— Solo perché è così sottile, si capisce — spiegò Bernard, — e perché serpeggia. Guardate come fa andare i fianchi quando cammina.

Shen gli diede un’occhiataccia e si allontanò con andatura rigida, ma questo fece ridere gli altri ancor di più. — Guardate il suo culo. Striscia, Verme!

Ender non disse nulla a Shen. Una mossa così scoperta avrebbe fatto pensare che cercava di riunire una sua banda, avversa all’altra. Restò chino sulla sua piccola scrivania elettronica, mostrandosi indifferente e dedito allo studio.

Ma non stava studiando. Stava cercando di regolare la scrivania perché mandasse un messaggio durante le lezioni, appena cominciate. Il messaggio doveva essere breve e diretto a tutti. La difficoltà consisteva nel celare l’identità del mittente, cosa che il computer consentiva soltanto all’insegnante. Alle frasi battute dagli alunni veniva automaticamente accluso il loro nome. Ender non era ancora riuscito a inserirsi sulla linea usata dagli insegnanti, dunque non poteva fingere di essere uno di loro. Ma conosceva il modo di costruire un fascicolo nuovo per un alunno inesistente, e una volta inseriti i dati, in un impulso di stravaganza, diede a questo alunno il nome Dio.

Soltanto quando il messaggio fu pronto per partire si permise di cercare lo sguardo di Shen. Come altri ragazzi anch’egli stava prestando meno attenzione all’insegnante di matematica che ai compagni di Bernard: ridacchiavano, scambiandosi spiritosaggini sull’insegnante, che ogni tanto interrompeva un’operazione a metà per guardarsi attorno con l’aria perplessa di chi è uscito dall’autobus e non capisce a quale stazione l’hanno fatto scendere.

Da lì a poco tuttavia Shen si volse. Ender gli fece un cenno, indicò la superficie del banco e sorrise. Shen lo fissò senza capire. Lui batté ripetutamente l’indice sul banco. Finalmente Shen abbassò gli occhi sul suo, e in quell’istante Ender mandò il messaggio. Vide Shen leggerlo con tanto d’occhi, poi rialzare il capo e scoppiare a ridere. Il ragazzino tornò a fissare Ender con un’espressione che chiedeva: sei stato tu? Endere scosse il capo e si strinse nelle spalle, come a dire: no di certo, e non so proprio chi possa esser stato.

Shen rise ancora, e parecchi dei ragazzi non facenti parte del gruppo di Bernard seppero dai suoi cenni che sui loro banchi c’era qualcosa. Il messaggio appariva ogni trenta secondi, girava svelto lungo il perimetro degli schermi e poi spariva. Una quindicina di alunni scoppiarono a ridere contemporaneamente.

— Cos’è che li diverte tanto? — chiese Bernard. Ender badò bene a restare perfettamente serio quando il ragazzo girò attorno lo sguardo fosco con cui spaventava i più timidi. Shen, invece, ghignò in modo apertamente derisorio. I compagni di Bernard smisero di far battute sull’insegnante e osservarono i loro banchi, su cui correva la scritta:

COPRITEVI IL CULO. BERNARD VE LO GUARDA.

— DIO

Bernard s’imporporò per la rabbia. — Chi è stato? — gridò.

— Dio, sembra — lo informò Shen. — Perché guardi me?

— So perfettamente che non sei stato tu — sbottò Bernard. — Per far questo occorre molto più cervello di quello che ha un Verme!

Da lì a cinque minuti Ender fece svanire il messaggio. Dopo un po’ al centro del suo banco ne apparve un altro:

SO CHE SEI STATO TU.

— BERNARD

Ender non rialzò lo sguardo, e si comportò come se non avesse ricevuto alcun messaggio. Bernard sta solo cercando di scoprire se ho la faccia del colpevole. Ma non lo sa.

Naturalmente non importava nulla che sapesse o meno. Bernard avrebbe cercato di fargliela pagare, per il solo fatto che non poteva permettersi di perdere la faccia. L’unca cosa che non riusciva a sopportare era che gli altri ridessero di lui. Doveva far capire a tutti chi era il capo. Fu così che quel mattino Ender finì faccia a terra nel locale delle doccie. Uno dei compagni di Bernard attese che l’inserviente si voltasse e gli piantò un ginocchio nell’addome. Ender mandò giù il rospo in silenzio. Stava ancora osservando e aspettando, e non intendeva mostrare agli insegnanti che fra lui e l’altro c’era guerra aperta.

Ma nell’altra guerra, quella che si svolgeva sui banchi, aveva già messo in opera l’attacco successivo. Quando tornò dalle docce trovò Bernard in preda alla rabbia; stava prendendo a calci le cuccette e gridava ai compagni: — Non sono stato io a scriverlo! State zitti!

Sul banco di ogni ragazzo era in marcia un messaggio luminoso:

AMO I VOSTRI BEI CULETTI. LASCIATEMELI BACIARE.

— BERNARD

— Ho detto che non sono stato io a scriverlo! — strillò Bernard. Dopo qualche minuto quelle urla fecero apparire Dap sulla soglia della camerata.

— Cos’è questo baccano? — li apostrofò.

— Qualcuno che usa il mio nome sta mandando attorno delle scritte! — brontolò imbronciato Bernard.

— Quali scritte?

— Non importa quali!

— A me importa. — Dap si accostò al banco del ragazzo che aveva la cuccetta accanto a quella di Ender. Lesse il messaggio, la sua bocca parve curvarsi in un mezzo sorriso, poi spinse il banco nell’armadietto.

— Interessante — disse.

— Adesso indagherà per scoprire il colpevole? — volle sapere Bernard.

— Oh, lo conosco già — rispose Dap.

, rifletté Ender. È stato troppo facile inserirmi nel programma. Loro sanno che si può far questo col computer, forse anzi ci contano. E sanno che l’intrusione è venuta dal mio banco.

— Be’, allora chi è? — sbottò Bernard.

— Stai gridando con me, recluta? — chiese dolcemente Dap.

All’istante l’atmosfera della camera cambiò. Se gli amici di Bernard avevano fatto commenti rabbiosi, e da parte degli altri c’erano state risatine ironiche, tutti tacquero. L’autorità stava facendo sentire la sua voce.

— Nossignore — disse Bernard.

— Tutti sanno che il programma inserisce automaticamente il nome del mittente.


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