Ciò che si trovò davanti fu una radura con un vecchio pozzo al centro, e su di esso un cartello che diceva: «Dissetati, viandante». Ender andò a guardare nel pozzo. In quell’istante udì un ringhio. Dalla foresta erano sbucati una dozzina di lupi avidi di sangue, ed avevano volti umani. Ender li riconobbe: erano i bambini che l’avevano deriso. Ma adesso avevano zanne fatte per sbranare, e senza un’arma con cui opporsi Ender fu subito sopraffatto e divorato.

La sua figura successiva apparve, come di regola, nello stesso luogo, e fu di nuovo fatta a pezzi dai lupi, benché Ender avesse tentato di gettarsi nel pozzo.

Nella partita che seguì venne riportato indietro nel parco giochi. I bambini stavano ridendo intorno a lui. Ridete pure finché volete, pensò Ender. Ora so chi siete. Agguantò una di loro. Lei lo seguì, irosamente, fino al toboga e si lasciò spingere in cima alla scaletta. Poi Ender si gettò giù con lei. Come in precedenza si ritrovò di colpo al suolo, ma anche la bambina era precipitata insieme a lui e al momento dell’impatto s’era trasformata in un lupo, che adesso giaceva stordito o morto sulla sabbia.

Uno dopo l’altro Ender trascinò i piccoli licantropi in quella trappola. Ma prima che avesse finito di eliminare l’ultimo i lupi ripresero vita, e non si mutarono in bambini. Ender fu sbranato nuovamente.

Questa volta, scosso e sudato, ritrovò la sua figura in piedi sul tavolo del Gigante. Potrei anche averne abbastanza, si disse. E dovrei presentarmi al comandante dell’orda.

Ma invece fece scendere la figura sulla sedia e al suolo, aggirò il corpo del Gigante e si diresse al parco giochi.

Stavolta, non appena i bambini si mutarono in lupi sotto il toboga, Ender li trascinò via e li gettò nel ruscello. A ogni tuffo i corpi sfrigolavano come se l’acqua fosse acido. I lupi furono distrutti, e una grossa nuvola di fumo scuro fluttuò via dalla zona. Nello stesso modo dovette disfarsi di altri bambini, che avevano preso a inseguirlo verso l’antica strada. Nella radura non trovò lupi in agguato, cosicché entrò nel secchio del pozzo e usando la carrucola si calò fino in fondo.

Nella caverna aleggiava una penombra rosata nella quale sfavillavano mucchi di gioielli. Passò oltre, e notò che alle sue spalle degli occhi balenavano fra le gemme. Una tavola coperta di cibarie non destò il suo interesse. S’inoltrò fra numerose gabbie, appese al soffitto della grotta, ognuna contenente creature strane dall’aria abbastanza amichevole. Giocherò con voi più tardi, pensò Ender. Sul fondo si trovò davanti a una porta che recava inciso, in lettere verdi e scintillanti:

LA FINE DEL MONDO

Senza pensarci sopra spinse il battente e passò oltre.

Dovette fermarsi subito. Si trovava su uno stretto cornicione roccioso, alto sulla parete di un burrone, di fronte a un immenso panorama di boschi su cui stagnavano i colori dell’autunno, qua e là chiazzato dall’ocra scuro dei campi ormai mietuti. C’erano stradicciole, carri trainati da buoi, piccoli villaggi sonnolenti, e un castello che in distanza si stagliava contro il cielo, così alto che le nuvole s’infrangevano nei picchi rocciosi alla base delle sue mura. Alzò gli occhi e vide che il cielo era il soffitto di un’immensa caverna, dove nidi di cristalli luccicavano fra le stalattiti.

Dietro di lui la porta si chiuse. Ender studiò quello scenario con meraviglia. Era così bello che la sua perenne attenzione contro il pericolo si rilassò. Al momento gli importava poco di quali partite si potessero giocare in quel posto. L’aveva scoperto lui, e contemplarlo era il suo premio. Così, senza nessun timore per le conseguenze, saltò giù dal cornicione.

La mossa lo mandò a precipitare in picchiata verso le rapide spumeggianti di un torrente, fra cui si levavano rocce acuminate, ma una nuvola avanzò a interporsi fra lui e il disastro, lo raccolse e lo portò via. Quel singolare tappeto volante lo condusse fino alla terre del castello, e quindi direttamente dentro una delle finestre che vi si aprivano. Fu deposto al suolo in una stanza di pietra, priva di porte e senza botole sul soffitto o sul pavimento. L’unica uscita era la finestra, che offriva soltanto una mortale caduta da grande altezza.

Pochi momenti prima s’era tuffato in un burrone con cieca incoscienza, ma stavolta esitò.

Quello che era parso un pezzo di legno davanti al caminetto si svolse dalle spire, rivelandosi per un lungo serpente i cui denti scintillavano di veleno.

— L’unica uscita dalla stanza sono io — disse. — La morte è la tua sola via di fuga.

Ender si stava guardando attorno in cerca di un’arma, quando all’improvviso lo schermo diventò nero. Su di esso lampeggiò una scritta:

SUBITO A RAPPORTO DAL COMANDANTE
SEI IN RITARDO
VERDE VERDE MARRONE

Seccato, Ender spense la scrivania, andò agli indicatori colorati accanto alla porta e premette la striscia verde verde marrone, poi seguì il sentiero che s’era acceso davanti a lui. Il verde chiaro, il verde smeraldo e il marrone terroso del nastro gli ricordarono l’autunno del regno che aveva appena scoperto. Devo ritornarci, disse a se stesso. Quel lungo serpente è come una corda, posso usarlo per calarmi dalla torre e trovare la soluzione di quel posto. Forse si chiama la fine del mondo perché è la fine della partita, perché io potrei entrare in uno di quei villaggi e diventare uno dei ragazzini che lavorano e giocano laggiù, senza nulla che mi possa uccidere e senza nulla da uccidere, soltanto per vivere là.

Ma a quel pensiero non fu capace di immaginare cosa poteva significare per lui «soltanto vivere». Era un’esperienza che non gli sembrava di aver mai fatto prima. Comunque fosse, desiderava farla.

Le orde erano più numerose dei gruppi dei nuovi arrivati, e le camerate in cui risiedevano erano molto più grandi. Quella era di larghezza normale, ma così lunga che si poteva vedere la lieve curvatura verso l’alto del pavimento, il quale seguiva la circonferenza esterna della Scuola di Guerra.

Ender si fermò all’ingresso. Alcuni ragazzi al di là della porta gli gettarono un’occhiata, ma erano alquanto più grandi di lui e parve che i loro sguardi lo trapassassero senza vederlo. Proseguirono nella conversazione, in piedi o seduti sulle loro cuccette. Stavano discutendo di qualche battaglia, ovviamente. I ragazzi più anziani non parlavano di sciocchezze. Ed erano molto più alti di lui: quelli di dieci o undici anni lo sovrastavano, e lo stesso si poteva dire per i più giovani, quelli di otto anni. Ender non era certo alto per la sua età.

Cercò di capire chi di loro fosse il comandante, ma quasi tutti erano seminascosti oltre i letti a castello, alle prese con le loro tute da battaglia e con quelle che i soldati chiamavano «uniformi da notte», calzamaglie che coprivano dalla testa ai piedi. Molti di essi avevano tirato fuori il loro banco, ma pochi erano occupati a studiare.

Ender fece un passo avanti. E nell’istante in cui oltrepassò la porta una mano si alzò a dargli l’alt.

— Cosa cerchi? — chiese il ragazzo che aveva la cuccetta superiore accanto all’ingresso. Era il più alto di tutti. Ender lo aveva già notato alla mensa: un giovane gigante con già qualche rado peluzzo sul mento. — Tu non sei una salamandra, pivello.

— Dovrei esserlo, invece, credo — disse Ender. — Verde verde marrone, giusto? Sono stato trasferito. — Intuendo che il ragazzo aveva mansioni di guardia alla porta, gli mostrò il cartoncino.

La guardia allungò una mano. Ender lo ritrasse, appena fuori portata. — Credo di doverlo consegnare a Bonzo Madrid.

Alla conversazione si unì un altro ragazzino, di statura inferiore agli altri ma sempre più alto di Ender. — Non bahn-zoe, testa di rapa: Bon-zo. È un nome spagnolo. Bonzo Madrid. Aqui nosotros hablamos español, Señor Gran Fedor.


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