CAPITOLO OTTAVO
L’ORDA E IL BRANCO
— Colonnello Graff, fin’ora le partite sono sempre state giocate con lealtà. Sia che la dislocazione delle stelle fosse casuale, sia che fosse simmetrica.
— La lealtà è una dote meravigliosa, maggiore Anderson. Non ha niente a che fare con la guerra.
— I risultati ne saranno compromessi. La classifica diventerà un dato privo di significato.
— Così sia.
— Ci vorranno mesi, anni, per attrezzare le nuove sale di battaglia e regolamentare le simulazioni belliche.
— È di questo che sono venuto a parlarle, infatti. Ricominci. Sia creativo. Pensi a ogni insolita o impossibile dislocazione delle stelle. Pensi ad altri modi in cui le regole possono essere aggirate. Aggiunga articoli, comma, eccezioni. Poi collaudi le simulazioni e veda qual è il loro grado di difficoltà. Vogliamo che qui ci sia una progressione calcolata. Vogliamo portare avanti il ragazzo.
— Quando ha intenzione di farne un comandante? A otto anni?
— No, naturalmente. Non ha ancora messo insieme la sua orda.
— Ah! Dunque mette sotto il torchio anche altri allo stesso modo?
— Lei sta dando troppa importanza alle gare, Anderson. Dimentica che si tratta di un addestramento e nient’altro.
— Dalle gare emergono lo stato sociale dell’individuo, i suoi scopi di vita, la sua identità. I bambini ne vengono fuori con una personalità formata. Se si pensasse che le gare possono essere oggetto di manipolazioni e imbrogli, la Scuola ne sarebbe scossa fin nelle fondamenta. Non sto esagerando.
— Lo so.
— Allora preghi che Ender Wiggin sia davvero il suo uomo, perché lei ha rovinato l’efficienza del suo metodo di addestramento e non potrà metterci una pezza per un bel po’ di tempo ancora.
— Se Ender non è quello che spero, e se il momento in cui giungerà al meglio delle sue possibilità militari non coinciderà con l’arrivo delle nostre flotte al mondo d’origine degli Scorpioni, allora non avrà alcuna importanza quali metodi usiamo qui alla Scuola.
— Spero che lei mi perdoni, colonnello Graff, ma sento di dover riferire i suoi ordini e la mia opinione sulle loro conseguenze allo Stratega e all’Egemone.
— Perché non anche al nostro amato Condottiero?
— Tutti sanno che lei ce l’ha nella manica.
— Quanta ostilità, maggiore Anderson! E io che credevo fossimo amici.
— Lo siamo. E penso che lei possa aver ragione su Ender. Solo non credo che lei, e soltanto lei, debba decidere il destino del mondo.
— Io non penso neppure d’avere il diritto di decidere il destino del solo Ender Wiggin.
— Così non le importa se faccio un rapporto?
— Certo che m’importa, razza d’un dannatissimo ficcanaso. Questa è una cosa che va decisa da gente che sa quel che sta facendo, non da dei cacasotto di politicanti che hanno usato i loro quattrini per farsi dare una poltrona.
— Ma lei capisce perché devo farlo.
— Certo: perché lei è un piccolo bastardo di burocrate dalla vista corta e pensa soltanto a star bene ammanigliato nel caso che le cose vadano male. Be’, se le cose andranno male tutti quanti saremo cibo per le larve degli Scorpioni. Così adesso abbia fiducia in me, Anderson, e non tiri sulle mie spalle tutta la dannata Egemonia. Quel che sto facendo è già abbastanza difficile anche senza di loro.
— Oh, che peccato! Qualcosa le rende dura la vita? Può farlo a Ender, ma non sopporta quando capita a lei, vero?
— Ender Wiggin è dieci volte più intelligente e robusto di me. Quello che gli faccio tirerà fuori la sua genialità. Se al suo posto ci fossi io, ne uscirei a pezzi. Maggiore Anderson, so che sto facendo naufragare le gare, e so che lei è più affezionato di me ad alcuni dei ragazzi che le giocano. Mi odi pure, se vuole, ma non mi fermi.
— Mi riservo il diritto di parlarne all’Egemone e allo Stratega quando vorrò. Ma per ora… faccia quello che ritiene meglio.
— Grazie per la sua così spontanea fiducia.
— Ender Wiggin… il piccolo mangiamerda che furoreggia nella grande graduatoria! Che piacere averti qui con noi! — Il comandante dell’orda dei Topi giaceva spaparanzato su una delle cuccette inferiori, vestito solo del suo banco. — Con te attorno, un’orda deve proprio mettercela tutta per perdere. — Parecchi ragazzi della camerata risero forte.
Non avrebbero potuto esserci due orde più diverse delle Salamandre e dei Topi. Il locale era un caos di disordine, sporco e rumoroso. Dopo Bonzo, Ender avrebbe creduto che un po’ d’indisciplina sarebbe stata un sollievo. Invece scoprì che s’era atteso quiete e ordine, e che quella baraonda lo metteva a disagio.
— Le cose ci vanno già a tutto vapore, Enderello bello. Io sono Rose de Nose, un geniale comandante ebreo, e tu un testavuota buono a nulla di un goy. Non scordarlo mai, e tutto ti andrà facile.
Fin da quando la F.I. era stata fondata, lo Stratega delle operazioni militari era sempre stato un ebreo. Questo per via del mito secondo cui un generale ebreo non perdeva mai una guerra. E fino a quel momento il mito non era stato smentito. Ciò conferiva prestigio a ogni ebreo della Scuola di Guerra fin dall’inizio, e gli faceva sognare di diventare Stratega. Era anche causa di rancori. Di conseguenza c’era chi chiamava i Topi «l’orda dei Giudei» o con titoli ancor meno gentili. Ma c’era anche chi ricordava volentieri che durante la Seconda Invasione il Presidente americano, un ebreo, era stato l’Egemone degli alleati, e un ebreo israeliano aveva ricoperto l’incarico di Stratega nella difesa a terra. E il Condottiero della Flotta era stato un ebreo d’origine per metà russa e per metà maori della Nuova Zelanda, Mazer Rackham, inizialmente sconosciuto e per due volte sottoposto a corte marziale, la cui leggendaria Forza d’Assalto aveva spezzato l’accerchiamento delle strapotenti astronavi nemiche per poi distruggere gli Scorpioni in una battaglia terribile presso Saturno.
E se Mazer Rackham era riuscito a salvare il mondo, allora non importava un fico se uno era ebreo o non lo era. Così diceva la gente.
Ma importava, e Rose de Nose lo sapeva. Si compiaceva di prendere in giro se stesso per prevenire i commenti sarcastici degli antisemiti (quasi tutti quelli che sconfiggeva in sala di battaglia diventavano, almeno per qualche giorno, dei mangiaebrei) ma nello stesso tempo si assicurava che tutti sapessero chi era. La sua orda occupava il secondo posto in classifica, e aspirava al primo.
— Ti ho preso con me, goy, perché non mi va di sentir dire che vinco soltanto perché ho dei bravi soldati. Tutti devono vedere che perfino con un soldo di cacio di poppante come te posso sempre vincere. Noialtri qui abbiamo solo tre regole. Fai quello che dico io, e non pisciare a letto.
Ender annuì. Sapendo che Rose voleva sentirsi chiedere quale fosse la terza regola si rassegnò a domandarlo. L’altro strinse le palpebre.
— Vuoi dire che quelle non erano tre? Be’, ragazzo, non siamo molto bravi in matematica, qui.
Il messaggio era chiaro. Vincere contava di più di ogni altra cosa.
— Le tue piccole esercitazioni con quei lattonzoli del tuo gruppo sono finite, Wiggin. Dimenticale. Sei in un’orda di ragazzi grandi, adesso. Ti faccio l’onore di arruolarti nel branco di Dink Meeker. Da ora in poi, per quello che ti riguarda, Dink Meeker è il tuo solo Dio. OK?
— Allora tu chi sei?
— Il boss a cui Dio viene a fare rapporto tutti i giorni. — Rose sogghignò. — E per cominciare ti è proibito usare ancora il banco finché non farai fuori due nemici nella stessa battaglia. L’ordine serve solo alla difesa di noi poverini. Corre voce che tu sia un seduttore di computer, e non voglio che tu metta le tue laide mani sul mio banco innocente.