— Ehi! — gridò Alai quando se ne andarono. — Siete sicuri di aver scritto bene il mio nome?
La sera dopo i ragazzi presenti erano ancora meno. E agli orecchi di Ender stavano giungendo voci preoccupanti: bambini del gruppo appena arrivato gettati a terra nelle docce, presi a spinte in sala giochi, sottomessi a soprusi in qualche corridoio, e le registrazioni dei compiti di scuola nei loro banchi cancellate o rovinate da ragazzi più anziani che sapevano come inserirsi nel computer.
— Stasera niente esercizi — disse Ender.
— Niente esercizi col cavolo! — si oppose Alai.
— Diamogli soddisfazione per qualche giorno. Non voglio che facciano del male a questi ragazzini.
— Se la smettiamo, anche per una sola sera, si convinceranno che le prepotenze di questo genere funzionano. Proprio come se tu fossi rimasto zitto e buono quando Bernard ti prendeva a pugni in testa.
— Inoltre — aggiunse Shen, — qualunque cosa facciano, noi non abbiamo paura. Perciò dobbiamo continuare. Abbiamo bisogno di pratica, e tu anche.
Ender ripensò a quel che aveva detto Dink. Le gare erano irrilevanti a confronto del resto del mondo. Perché qualcuno avrebbe dovuto regalare tutte le serate della sua vita a quello stupido, stupidissimo gioco?
— Pochi come siamo, non concluderemmo molto in ogni modo — disse Ender avviandosi all’uscita.
Alai lo prese per un gomito. — Ti hanno messo paura? Ti hanno pestato nelle doccie? Ti hanno ficcato la testa nel gabinetto? I ragazzi della tua orda ti sparano alla schiena quando nessuno li vede?
— No — disse Ender.
— Sei ancora mio amico? — chiese Alai sottovoce.
— Sì.
— Allora restiamo uniti, Ender. Io starò qui e mi allenerò con te.
I ragazzi più anziani tornarono a curiosare, ma pochi di loro erano comandanti di un’orda. Nel gruppo che venne dentro Ender vide alcune uniformi delle Salamandre, e anche un paio di Topi. Stavolta non presero nomi. Ridacchiarono, si diedero di gomito l’un l’altro e cominciarono a far battute pesanti ad alta voce, deridendo gli sforzi dei ragazzini più giovani che compivano esercizi coi loro muscoli non allenati. Non pochi di essi ne furono umiliati; qualcuno accennò a smettere.
— Ascoltate bene quello che dicono — intervenne Ender. — Annotatevi le loro parole. Vi saranno utili per quando vorrete far uscire dai gangheri il vostro avversario. Noi invece sappiamo mantenere la calma, no?
Shen volle sviluppare quel concetto, e ad ogni comparsa dei sogghignanti spettatori preparò un gruppetto di novellini per ripetere in coro le frasi più offensive. Quando ci presero gusto e acquistarono ritmo, quel coro intercalato da ululati sarcastici divenne così sfottente che alcuni dei ragazzi più anziani si spinsero via dalla parete e vennero avanti per battersi.
Le tute da battaglia erano confezionate per combattimenti a impulsi luminosi; offrivano scarsa protezione nelle lotte corpo a corpo in gravità zero, oltre ad ostacolare molto i movimenti. Metà dei ragazzi di Ender, tuttavia, indossavano tute di quel genere e non potevano lottare a mani nude. Ma la rigidità del tessuto li rendeva potenzialmente utili. In fretta lui ordinò ai novellini di radunarsi in un angolo della sala. I ragazzi più anziani risero di quella mossa, e altri nel vedere che il gruppetto si ritirava lasciarono la parete per unirsi agli attaccanti.
Ender e Alai decisero di proiettare un soldato congelato in faccia a un avversario. Il ragazzo prescelto usò la pistola su se stesso, abbassò l’elmo sul volto, e i due lo scaraventarono avanti. L’avversario fu colpito dal casco in pieno petto, e rantolò di dolore.
Nessuno scherzava più, adesso. Il resto dei ragazzi anziani si lanciò in volo verso la zona della battaglia. Ender non aveva troppe speranze che i suoi compagni se la cavassero senza ferite, forse anche serie. Ma il nemico li aggrediva in disordine e senza alcuna coordinazione: non avevano mai lavorato insieme, mentre la piccola orda di Ender, benché composta da appena una dozzina di elementi, aveva già una serie di schemi pronti per le manovre di gruppo.
— Quattro-Tre-Nova! — gridò Ender. Gli avversari risero. I suoi ragazzi formarono tre gruppi, coi piedi uniti e tenendosi per mano, simili a piccole stelle a contatto della parete di fondo. — Aggirare gli avversari e raggiungere la porta. Pronti… adesso!
Al segnale le tre stelle esplosero, mentre ciascuno dei quattro componenti schizzava via in una direzione diversa per rimbalzare sulle pareti laterali e raggiungere la porta. I loro assalitori si trovavano al centro del locale, dove mutare direzione era assai più difficoltoso, e oltrepassarli fu una manovra facile.
Ender aveva calcolato la sua posizione in modo che la spinta lo portasse a raggiungere il ragazzo congelato che s’era lasciato usare come un missile. Ora la sua tuta s’era di nuovo ammorbidita, e appena l’ebbe preso Ender sfruttò il proprio momento d’inerzia per spedirlo verso la porta. Sfortunatamente l’inevitabile risultato fu che lui venne respinto dalla parte opposta, e a velocità ridotta. Isolato dai suoi soldati stava ora fluttuando in direzione del fondo della sala, dove gli avversari s’erano riuniti. Si girò e controllò che i suoi compagni fossero giunti senza danni nei pressi dell’ingresso.
Ma intanto gli altri, furibondi e disorganizzati, s’erano accorti di lui. Ender cercò di calcolare quanti secondi aveva a disposizione per arrivare alla parete e spingersi via. Non abbastanza. E parecchi avversari già rimbalzavano verso di lui. Per un attimo fu sgomento nel vedere fra i loro volti quello di Stilson. Poi, con un brivido, capì che s’era trattato di uno scherzo della fantasia. Ma la situazione non era poi troppo diversa, con la differenza che stavolta non poteva risolverla con un duello. Quei ragazzi non avevano un capobanda, almeno per quanto ne sapeva lui, ed erano tutti più grossi e più forti.
Tuttavia qualcosa aveva imparato sui combattimenti corpo a corpo in assenza di peso, e sulla meccanica degli oggetti in movimento inerziale. Nelle partite in sala di battaglia non c’era bisogno di quelle tecniche; un soldato non si gettava in mezzo a un gruppo di avversari non congelati per colpirli a mani nude. Così, nei pochi secondi che gli restavano, cercò d’assumere la posizione migliore per accogliere gli assalitori.
Per sua fortuna essi conoscevano la lotta a zero G ancor meno di lui, e i pochi che tentarono di prenderlo a pugni scoprirono che i colpi avevano ben scarso effetto, dal momento che i loro corpi si muovevano all’indietro nell’istante stesso in cui facevano scattare avanti un braccio. Ma alcuni stavano arrivando a gambe tese, chiaramente intenzionati a spaccargli una costola con una pedata, e Ender si disse che doveva togliersi via al più presto dal loro punto d’impatto.
Afferrò per un polso un ragazzo che gli aveva appena mollato una sventola e lo tirò con forza verso di sé. Lo strattone servì a farlo roteare fuori portata dagli avversari in avvicinamento, ma lo allontanò ancor di più dalla porta. — State dove siete! — gridò ai compagni, che si preparavano ad accorrere in sua difesa. — Non muovetevi da lì!
Qualcuno lo afferrò per un piede. La stretta gli servì da leva, e riuscì a piazzare sull’orecchio destro del ragazzo un pedatone che gli strappò un grido. Se l’avversario l’avesse lasciato andare per tempo il colpo gli avrebbe causato assai meno danni. Invece volle essere testardo: il calcio gli lacerò l’orecchio facendone sprizzare gocce di sangue, e soltanto il dolore lo costrinse infine a mollare la presa.
Lo sto facendo di nuovo, pensò Ender. Faccio del male agli altri, soltanto per salvare me stesso. Perché non mi lasciano in pace? Perché devono costringermi a questo?
Altri tre ragazzi stavano convergendo su di lui, e stavolta agivano di concerto. La loro intezione era di ancorarsi a lui e di colpirlo tenendolo fermo. Ruotò su se stesso in modo da consegnare i suoi piedi a due di loro, e avere le mani libere per affrontare il terzo.