Dink scosse il capo. — Mai. Guarda quel che ha fatto a Rose. Il ragazzo è matto. Rose de Nose. Dorme qui con noi invece che nella sua cabina. E sai perché? Perché ha paura della solitudine, Ender. Ha paura del buio.
— Rose?
— Ma loro lo hanno fatto comandante, e così deve comportarsi come se lo fosse davvero. E non sa cosa sta facendo qui. Vince le partite, e questo lo spaventa più di qualunque altra cosa, dato che non sa perché le vince, salvo che io ho qualcosa a che fare col risultato. Teme che da un momento all’altro qualcuno possa scoprire che lui non è una sorta di magico generale israeliano. Non si chiede neppure perché ci lasciano accanire tanto in queste gare. Nessuno se lo chiede.
— Questo non significa che sia matto, Dink.
— Lo so, tu sei qui da appena un anno e credi che questi ragazzi siano normali. Be’, non lo sono. Noi non lo siamo. Io frugo in biblioteca, e chiedo dei libri sul mio banco. Libri vecchi, perché non ci permettono di consultare roba recente; comunque mi è bastato per avere un’idea di ciò che è un ragazzino. E noi non siamo dei ragazzini. Quelli possono perdere qualche volta, e a nessuno importa. I ragazzini non vengono chiamati alle armi, non diventano comandanti, non spadroneggiano su più di quaranta altri della loro età. Questo supera ciò che chiunque possa sopportare senza diventare un po’ pazzo.
Ender cercò di rammentare quali altri bambini, nella sua vecchia scuola e in città, erano di quel genere. Ma il solo a cui poté paragonarli fu Stilson.
— Io avevo un fratello. Un tipo proprio normale. L’unica cosa che gli importava erano le ragazze. E il volo. Voleva volare. Gli piaceva anche giocare a pallone… qualche partitella, far rimbalzare la palla contro il muro, dribblare e correre su e giù per i corridoi della città, finché un agente della quiete non gli sequestrava il pallone. Insieme ce la spassavamo. Mi stava insegnando a dribblare, quando fui arruolato.
Ender ripensò al proprio fratello, e non si trattò di un ricordo molto consolante.
Dink fraintese l’espressione del suo volto. — Ehi… so che qui nessuno parla di casa. Ma noi proveniamo da un luogo, no? La Scuola di Guerra non ci ha partorito. Semmai ci distrugge. E tutti quanti ricordiamo le cose di casa nostra. Forse non volentieri, a volte, ma le ricordiamo e poi davanti agli altri fingiamo che… senti, Ender, perché fanno in modo che nessuno parli mai di casa? Questo non ti fa pensare che la cosa abbia un’importanza? Ci manovrano in modo che nessuno osa ammettere… ah, al diavolo anche te!
— No, aspetta — lo corresse Ender. — Stavo solo pensando a Valentine. Mia sorella.
— Scusa. Non volevo metterti di cattivo umore.
— Non fa nulla. Non ho pensato molto a lei, ultimamente, e proprio perché sto diventando… come hai detto tu.
— Già. E non piangiamo mai. Cristo, a questo non avevo mai pensato. Stiamo davvero mettendocela tutta per essere adulti. Come i nostri padri. Scommetto che tuo padre era come te, eh? Un bambino tranquillo, paziente, ma capace di…
— No, io non sono come mio padre.
— Be’ forse dico delle sciocchezze. Ma guarda Bonzo, il tuo ex comandante: si è praticato da solo un’overdose di antico onore spagnolo. Non può concedere a se stesso un attimo di debolezza. E chi riesce meglio di lui, lo sta insultando. Ma essere forte a quel modo è come tagliarsi le palle. Ecco perché ti odia: quando cercava di punirti tu non ne soffrivi. Così ti odia, e gli sembra normale desiderare di ammazzarti. È un pazzo. Tutti sono pazzi.
— E tu no?
— Sì, anch’io, ragazzino. Ma almeno, quando ho fatto un’indigestione di pazzia mi alzo in volo come un uccello nello spazio… finché la pazzia non mi esce dalla pelle e va ad appiccicarsi ai muri. Ma il giorno dopo arrivano altre battaglie, e torme di ragazzi urlanti vanno a sbattere calci sulle pareti. E la pazzia ne schizza fuori e mi ritorna addosso.
Ender sorrise.
— E anche tu sei pazzo — disse Dink. — Avanti, andiamo a mangiare.
— Magari tu potresti essere un comandante senza essere un pazzo. Magari il fatto di conoscere questa pazzia ti impedirà di cascarci dentro.
— Io non lascerò che quei bastardi mi manovrino, Ender. Sono riusciti a metterti sotto ben bene, e non hanno in programma di trattarti coi guanti. Guarda quello che ti hanno combinato fin’ora.
— Non mi hanno fatto niente, a parte darmi una promozione.
— E questa ti ha reso la vita tanto dolce, eh?
Ender rise e scosse il capo. — No, se la metti così.
— Loro pensano di averti su un vassoio. Non permetterglielo.
— Ma è per questo che sono venuto qui — disse Ender. — Per lasciare che mi trasformino in uno strumento. Per salvare il mondo.
— Non mi capacito che tu creda ancora a queste cose.
— Quali cose?
— La minaccia degli Scorpioni. Salvare il mondo. Ascolta, Ender, se gli Scorpioni volessero tornare, sarebbero già qui. Ma non ci stanno invadendo. Li abbiamo battuti, e loro se ne sono andati.
— Ma i filmati che…
— Tutta roba della Prima e della Seconda Invasione. Quando Mazer li spazzò via, i tuoi nonni non erano ancora nati. Apri gli occhi. È tutta una commedia. Non c’è nessuna guerra, e la F.I. ci tiene qui per i suoi scopi.
— Quali scopi?
— Finché la gente avrà paura degli Scorpioni, la F.I. resterà in una posizione di potere, e finché deterrà il potere certe nazioni continueranno a esser governate come in passato. Ma guarda i telegiornali, Ender: presto la gente non vedrà più il motivo di questa alleanza, e ci saranno di nuovo guerre, forse anche quella che metterà fine a tutte le guerre. La minaccia è questa, Ender, non gli Scorpioni. E in questa guerra, quando verrà, tu e io non saremo amici. Perché tu sei americano, proprio come i nostri cari insegnanti. E io non lo sono.
Andarono in sala mensa e cenarono, parlando d’altre cose. Ma Ender non poté impedirsi di continuare a riflettere su quel che Dink aveva detto. La Scuola di Guerra era un ambiente a tal punto chiuso, intorno a quei bambini così presi dalle gare, che lui dimenticava perfino l’esistenza del mondo esterno. Onore spagnolo. Guerre. Manovre politiche. Sì, la Scuola di Guerra era un posto ben piccolo al confronto.
Ma lui non poteva prendere per buone le conclusioni di Dink. Gli Scorpioni erano veri. La minaccia era reale. La F.I. controllava un sacco di cose, ma non la TV e la stampa. Non nella città in cui era nato. A casa di Dink, in Olanda, dopo tre generazioni di egemonia sovietica forse tutto era controllato. Ma suo padre aveva detto spesso che le bugie non potevano durare a lungo in America. E lui ci credeva.
Ci credeva, anche se il seme del dubbio era lì, ma del tutto inerte, e ogni tanto metteva fuori una piccola radice. Era un seme che nel crescere stava causando dei mutamenti. Lo rese più attento al significato dei discorsi altrui che alle loro parole. Lo rese più saggio.
Quella sera non c’erano molti ragazzi al solito allenamento, neppure la metà. — Dov’è Bernard? — s’informò Ender.
Alai si limitò a sogghignare. Shen alzò gli occhi al cielo e assunse un’aria di meditazione ispirata.
— Non te l’hanno detto? — intervenne un altro, un novellino di un gruppo arrivato un paio di mesi prima. — Corre voce che chi viene a imparare con te poi non combina niente di buono nell’orda di qualcun altro. Dicono che i comandanti non vogliono soldati che siano stati rovinati dai tuoi allenamenti.
Ender annuì.
— Ma io non me ne curo — continuò il ragazzino. — Voglio diventare il miglior soldato che ci sia, e allora un comandante che abbia un grammo di cervello pregherà per avermi. No?
— Sicuro. — Ender esibì un’aria convinta.
Cominciarono a lavorare di lena. Dopo circa mezz’ora, mentre stavano addestrandosi a manovrare i corpi congelati altrui per farsene scudo, numerosi comandanti vestiti di uniformi diverse entrarono in sala. Ostentando un’aria grave presero il nome a tutti.