CAPITOLO NONO
LOCKE E DEMOSTENE
— Non l’ho chiamata qui per parlare del tempo. Come diavolo è possibile che un computer faccia questo?
— Non saprei.
— Come può aver ottenuto una foto del fratello di Ender, per poi inserirla nella grafica di questa Terra delle Meraviglie?
— Colonnello Graff, io non c’ero quando è stato programmato. Tutto ciò che so è che non aveva mai portato nessuno tanto avanti in quella partita. La Terra delle Meraviglie è già abbastanza strana, ma lui l’ha attraversata ed è andato oltre. In un posto al di là della Fine del Mondo. E…
— Conosco il nome di quei posti. Solo non so che significato abbiano.
— La Terra delle Meraviglie è stata programmata qui. Viene menzionata in varie registrazioni. Ma quel che c’è oltre la Fine del Mondo non risulta da nessuna parte. E non abbiamo alcuna esperienza di questo.
— Non mi piace che il computer giochi così con la mente di Ender. Peter Wiggin è l’individuo col maggior potenziale della sua generazione, a parte forse la loro sorella Valentine.
— E la partita mentale è stata programmata per aiutarli a formarsi, e a trovare mondi in cui si trovino a loro agio.
— Lei non ha capito, maggiore Imbu, eh? Io non voglio che Ender si trovi a suo agio con la fine del mondo. Il nostro compito qui non è di essere a nostro agio con la fine del mondo!
— La Fine del Mondo, in una partita, non è necessariamente la fine dell’umanità nella guerra contro gli Scorpioni. Ha per Ender un significato del tutto personale.
— Bene. Quale significato?
— Non lo so, signore. Io non sono quel ragazzo. Lo domandi a lui.
— Maggiore Imbu, è a lei che lo sto domandando.
— Potrebbero esserci mille significati diversi.
— Sentiamone uno.
— Lei ha isolato il ragazzo. Forse ciò che desidera è la fine di questo mondo, la Scuola di Guerra. O forse riguarda la fine del mondo in cui è cresciuto, casa sua. Oppure è qualcosa circa il suo modo di competere così duramente con gli altri. Ender è un ragazzino molto sensibile, lo sa, e ha fatto fisicamente del male a parecchi compagni. Forse desidera la fine di quel sistema di cose.
— Oppure niente di tutto questo.
— La partita mentale è un rapporto fra il ragazzo e il computer. Insieme creano delle vicende. E si tratta di vicende reali, nel senso che riflettono la realtà della vita del ragazzo. Questo è tutto ciò che so.
— Ora le dirò ciò che so io, maggiore Imbu. Quella foto di Peter Wiggin non può esser stata tolta dai nostri archivi qui alla Scuola. Non abbiamo niente su di lui, né documenti né registrazioni elettroniche. Inoltre la foto è alquanto successiva all’arrivo di Ender qui.
— È trascorso appena un anno è mezzo, signore. Cosa glielo fa credere? Un ragazzo non può essere molto cambiato.
— Adesso si taglia i capelli in modo del tutto diverso. La sua bocca è stata modificata da un intervento odontoiatrico. Mi sono fatto spedire delle foto recenti dalla Terra e le ho confrontate. L’unico modo in cui il computer che abbiamo qui, alla Scuola di Guerra, può aver avuto quella foto è tramite richiesta radio a un computer situato sulla Terra. E non uno connesso a quelli della F.I. Questo presume la conoscenza di una chiave d’accesso, e un’autorizzazione. Non è in nostro potere contattare la Contea di Guilford nel North Carolina e pescare una foto dai loro archivi scolastici. È stato qualcuno in questa Scuola a prendere l’iniziativa?
— Lei non capisce, signore. Il computer della Scuola è collegato alla rete della F.I. Se vogliamo una foto dobbiamo, in teoria, chiedere un’autorizzazione; ma se il programma della partita mentale stabilisce che la foto è necessaria…
— Può farsela mandare.
— Non è cosa di ogni giorno. Soltanto se è per il bene del ragazzo.
— OK, è per il suo bene. Ma perché? Suo fratello è pericoloso, lo abbiamo rifiutato dopo aver chiarito che ha una mentalità follemente distorta. Perché ha tanta importanza per Ender? Perché, dopo tutto questo tempo?
— Onestamente, signore, non lo so. E il programma della partita mentale non è strutturato in modo da potercelo rivelare. Esiste la possibilità che non lo sappia neppure lui. Si tratta di un terreno ancora poco esplorato.
— Sta dicendo che il programma si autocostruisce mentre va avanti?
— Possiamo metterla anche così.
— Non sa lui stesso dove sta mettendo i piedi, eh? Be’, questo mi fa sentire un po’ meglio. Pensavo d’essere io il solo.
Valentine celebrò da sola l’ottavo compleanno di Ender, nel piccolo bosco dietro la loro nuova casa di Greensboro. Liberò una striscia di terreno dagli aghi di pino e dalle foglie, e lì scrisse il nome di lui con un bastoncino. Poi costruì un cono di ramoscelli in un cerchio di sassi e accese un fuoco. Il fumo passò fra i rami e gli aghi del pino sopra di lei e spiraleggiò nel cielo. Sali su nello spazio, sempre più in alto, gli augurò in silenzio. Fino alla scuola di Ender, fra le stelle.
Non avevano ricevuto da lui una sola lettera, e per quanto ne sapevano quelle scritte da loro non lo avevano mai raggiunto. Nel periodo successivo alla sua partenza, ogni pochi giorni Mamma e Papà s’erano seduti davanti alla tastiera e avevano battuto lunghe lettere. Poi gliene avevano mandata una alla settimana, sempre in attesa di una risposta che non veniva mai, e quindi una al mese. Adesso erano trascorsi due anni e nessuno parlava più di lettere, nessuno aveva ricordato il suo compleanno. Lui è morto, si disse tristemente, perché lo abbiamo dimenticato.
Ma Valentine non lo aveva dimenticato. Senza farne parola con i genitori, e soprattutto attenta che Peter non lo intuisse, aveva continuato a pensare a lui ed a scrivergli lettere pur sapendo che non avrebbe ricevuto nessuna risposta. E quando Mamma e Papà li avevano informati che avrebbero lasciato la città sotterranea per trasferirsi nel North Carolina, Valentine aveva capito che non si aspettavano di rivedere Ender mai più. Se ne andavano dall’unico posto dove lui avrebbe saputo rintracciarli. Come avrebbe più potuto trovarli lì, fra quegli alberi, sotto quel cielo pesante e mutevole? Per tutta la vita Ender aveva vissuto nella luce artificiale dei corridoi, e adesso, chiuso nella Scuola di Guerra, aveva ancor meno contatto con la natura. In tutto quel verde si sarebbe perso.
Valentine sapeva perché s’erano trasferiti lì. Era stato per Peter, affinché il vivere fra gli alberi e i piccoli animali, in quella che Mamma e Papà pensavano fosse la sana natura primordiale, avesse un’influenza positiva su quel loro figlio così preoccupante e strano. In un certo senso l’aveva avuta. Peter era molto immerso in quell’ambiente. Lunghe passeggiate all’aria aperta, tagliando per i boschi e i campi; assenze che duravano a volte un giorno intero, con un coltello a serramanico in tasca e sulla schiena lo zaino contenente il suo banco e un paio di sandwich.
Ma Valentine sapeva. Lei aveva visto lo scoiattolo spellato vivo, legato per le zampe a quattro bastoncini conficcati nel fango. E con l’immaginazione continuava a vedere Peter catturarlo, metterlo in croce, e poi spellarlo con fredda e pensosa attenzione per portare allo scoperto l’intreccio dei muscoli rossi e pulsanti. Quanto ci aveva messo lo scoiattolo a morire? Fissando il focherello le parve di vedere Peter seduto con la schiena poggiata all’albero dove forse l’animaletto aveva fatto il nido, occupato a giocare col suo banco mentre la vita dello scoiattolo sgocciolava via.
Quella sera rientrò in casa ancor così inorridita che non poté mandar giù un boccone, e guardò Peter mangiare con grande appetito chiacchierando piacevolmente. Ma più tardi ci ripensò, giungendo alla conclusione che forse per Peter quello era stato una sorta di rito magico, come il suo piccolo fuoco: un sacrificio teso a placare gli oscuri Dei che davano la caccia alla sua anima. Meglio torturare scoiattoli che gli altri ragazzi. Peter era sempre stato un coltivatore di dolore: lo piantava, lo annaffiava, e giunto a maturazione lo divorava avidamente. Meglio che se ne nutrisse con piccoli sporchi bocconi di quel genere che con crudeltà compiute ai danni dei suoi compagni di scuola.