Da quando aveva detto che sua madre era malata, e aveva sentito la propria voce pronunciare quella parola, era stato costretto ad affrontare l’idea anziché fuggire e nascondersi; costretto a cercare di considerare con fermezza quanto lei era malata, e quale era la sua malattia.
E questo era difficile. Comportava una comparazione: come se lei non fosse stata sua madre, ma una donna qualunque, chiunque. Chiunque fosse malato.
Durante la frequenza delle ultime due scuole superiori, Hugh aveva conosciuto ragazzi avviati fino in fondo sulla strada delle droghe dure. E in decima classe (non era un ricordo che lui amava riesumare) la ragazza che qualche volta copiava i suoi compiti d’inglese, non ne ricordava il nome… lo faceva sempre sentire colpevole perché era così umile… si chiamava Cheryl, e un giorno, la settimana prima della fine delle scuole, si era chiusa nel gabinetto delle ragazze e aveva cercato di infilarsi dentro a una toeletta. Lui aveva sentito le urla, e aveva visto nel corridoio una ragazza che rideva in modo orribile e convulso, e poi aveva visto portar fuori Cheryl, piegata in due, con l’acqua rossastra che le sgocciolava dai capelli, urlante con una voce alta e acuta, e lui e tutti gli altri ragazzi erano rimasti lì a guardare, mentre la gente saliva correndo le scale per vedere. Nessuno aveva saputo come parlarne, dopo; nessuno di coloro che avevano sentito le urla. Quella era la cosa peggiore che gli fosse mai capitata; ma lavorando in un supermercato vedevi tanta gente che inveiva contro i funghi, e pazzi come il taccheggiatore che cercava di cavarsela con un tentativo di corruzione, o il tizio che aveva minacciato Donna con un coltello quando lei aveva rifiutato di accettargli un assegno senza vedere la sua carta d’identità; e persone che facevano cose che potevano avere una ragione ma sembravano molto strane, come acquistare quarantotto boccette di spray germicida e una scatola di castagne d’acqua. Tutto ciò che quegli individui avevano in comune, a quanto poteva capire lui, era una specie di sfasamento, di discronia. Il motore faceva rumore, ma l’energia non arrivava alle ruote. Erano bloccati. Non approdavano a niente. Negli ultimi sette anni, sua madre aveva cambiato casa tredici volte, era vissuta in cinque stati diversi; e più spesso si muove, pensava Hugh, e più non approda a niente.
Eppure, anche se era come quelli che inveivano contro i funghi e come quelli che compravano lo spray germicida, sua madre non era ridotta come i drogati o Cheryl. Era bloccata, ma non impantanata. La società dei prestiti, un’azienda enorme che aveva filiali in tutto il paese, le aveva già concesso due trasferimenti, e le dava anche aumenti di stipendio. Lei si lamentava molto del lavoro, ma non mancava mai un giorno. E in quell’ufficio s’era fatta finalmente un’amica, Durbina, e aveva trovato un interesse nuovo, quella faccenda delle vite anteriori, che la stava affascinando. Era pazzesco? Hugh non voleva giudicarlo, in un senso o nell’altro. Quello che gli diceva sua madre gli sembrava piuttosto sciocco. Ricordavano sempre di essere state principesse o somme sacerdotesse, nelle vite precedenti; e lui si domandava chi aveva lavorato, allora, nelle società di prestiti e nei supermercati dell’antico Egitto. Ma no, senza dubbio c’era la tendenza a ricordare le cose più importanti. Era un’eccentricità, ma non più della maggior parte delle cose cui s’interessava la gente: i risultati del baseball, il futuro dell’alluminio, gli antichi vasi da farmacia, la proliferazione nucleare, Gesù, la politica, i cibi della salute, il violino. La gente faceva cose molto strane. La gente era estremamente strana. Lo erano tutti. Non potevi giudicare la malattia mentale dalla stranezza, altrimenti sarebbero stati tutti malati. Si era malati quando si guidava la macchina tenendola in folle. Il luogo da cui sua madre non poteva allontanarsi era la casa, e più la lasciava e più era bloccata; non sopportava di essere sola in casa, non poteva rientrare di sera e trovare la casa vuota, viveva nel terrore di svegliarsi la notte e di non trovare nessuno. E questa tendenza era peggiorata. Sua madre era peggiorata… Ma io lo so, pensò Hugh. A che serve saperlo? Non posso far nulla. Lei non ha altri che me. E devi avere qualcuno, anche se nessuno dei due può far nulla. Non c’è nessun altro. Lui.
Stava aspettando Hugh all’angolo, di fronte alla scuola. — Andiamo a vedere le gare d’atletica al campo d’allenamento dell’università — disse, e Hugh, tredici anni, con la camicia verde che aveva ricevuto in dono per il compleanno il giorno prima, si accorse che gli altri ragazzi notavano suo padre, un uomo grande e grosso e biondo, alto, con il petto ampio, bello in una giacca di tela jeans sbiancata alle cuciture. Era venuto lì con il camion Ford, ed erano andati al campo dell’università a vedere i velocisti, i saltatori in lungo, i saltatori con l’asta nella foschia dorata del pomeriggio d’aprile. Parlarono delle ultime Olimpiadi, delle tecniche del salto con l’asta. Suo padre gli batté gentilmente la mano sulla spalla e disse: — Sai, Hughie, ho molta fiducia in te. Lo sai? Su te posso contare. Sei più solido di tanti uomini fatti che conosco. Continua così. Tua madre ha bisogno di qualcuno su cui contare. Può contare su di te. Per me, saperlo è molto importante. — Hugh non poteva baciare la grossa mano coperta da una peluria dorata; l’unico modo in cui gli uomini potevano toccarsi era colpirsi. Non poteva neppure sfiorare il polsino sfrangiato della giacca di tela jeans. Restò seduto nell’improvvisa, esaltante luce solare di quella lode. Il giorno dopo, quando tornò a casa da scuola, in cucina c’era Joanna, la loro vicina, con le labbra contratte. La madre di Hugh era sdraiata, e dormiva sotto l’effetto dei sedativi; suo padre se ne era andato con il camion Ford e aveva lasciato un biglietto per dire che aveva trovato un lavoro in Canada e che secondo lui era venuto il momento buono per rompere.
Hugh non vide mai il biglietto, sebbene Joanna avesse ripetuto un paio di frasi del testo, come «il momento buono per rompere», e lui sapesse che sua madre lo teneva insieme alle carte e alle fotografie in una cassettina.
Lui aveva preso brutti voti, per il resto di quel semestre, perché sua madre aveva usato tutti i mezzi per impedirgli di andare a scuola, di solito facendosi venire una crisi di pianto a colazione. — Tornerò, vado solo a scuola. Tornerò alle tre e mezzo — prometteva lui. Sua madre piangeva e l’implorava di restare con lei. Quando restava, non sapeva cosa fare per passare il tempo, se non leggere vecchi album a fumetti; aveva paura di uscire e aveva paura di rispondere al telefono, nell’eventualità che fosse l’ispettore scolastico; e sua madre non sembrava mai contenta di averlo vicino. Quell’estate avevano traslocato per la prima volta, e lei s’era trovata un lavoro. Le cose andavano sempre meglio, per un po’, nei posti nuovi.
Quando sua madre aveva incominciato a lavorare era riuscita a cavarsela bene, durante il giorno, e Hugh aveva finito la scuola senza problemi. Era la notte, l’oscurità, che lei non riusciva ancora ad affrontare: restare sola al buio. Finché sapeva che c’era lui, tutto andava bene. Su chi altro poteva contare?
E che altro aveva, lui, tranne la fidatezza? Tutto ciò che poteva aver creduto di essere o di valere, suo padre l’aveva svalutato andandosene. Nessuno abbandona le cose necessarie, o le cose preziose. Ma sebbene Hugh comprendesse abbastanza bene ciò che aveva provato Cheryl, la sensazione d’essere una merda, di doversi togliere di mezzo, non avrebbe fatto nulla, diversamente da Cheryl, perché sotto un certo punto di vista lui era prezioso, utile, persino necessario: poteva essere lì quando sua madre aveva bisogno di aver vicino qualcuno. Poteva prendere il posto di suo padre. In un certo senso.
Quando si era dedicato all’atletica, in primavera, durante la decima classe, s’era fratturato la caviglia saltando con l’asta, il primo giorno. Nello sport non era mai riuscito. Era diventato grande e grosso, ma pesante, con i muscoli molli e la pelle molle.