— Ehi, mi comprerò una di quelle tute rosse così carine e comincerò anch’io a correre su e giù per la strada — disse Donna. — Dov’è finita la tua gomma di scorta, Buck? — Lui abbassò gli occhi sul proprio ventre, vergognandosi, ma vide che forse andava un po’ meglio del solito. Non c’era da meravigliarsene, perché ogni mattina, prima di andare al lavoro, si faceva una lunga, svelta camminata, più qualcosa come dieci o dodici ore di marcia e di nuoto, senza mangiare molto. Portare viveri a sufficienza nella terra crepuscolare era un problema che lui risolveva soprattutto sopportando la fame.

Le prime esplorazioni verso monte, lungo il ruscello, erano state incerte e brevi. Hugh aveva paura di smarrirsi. Acquistò una bussola, e poi scoprì che non poteva servirsene. L’ago tremolava e deviava a ogni passo, e sebbene quasi sempre sembrasse indicare che il nord era oltre il ruscello (se il nord era l’estremità azzurra dell’ago), lui avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più preciso, per ritornare alla radura della soglia, se si fosse addentrato tra le colline. Non c’erano sole e stelle che lo aiutassero a orientarsi. Che cosa significava «nord», lì? Gli alberi crescevano così vicini che era possibile camminare in linea retta per un lungo tratto, e Hugh non trovava mai una visuale spaziosa, nessuna possibilità di farsi un’idea dell’aspetto del territorio. Perciò esplorava i sentieri e i macchioni, le depressioni, le radure, le vallette laterali, le fonti sui fianchi dei colli, i meandri della foresta, su entrambe le sponde del ruscello, salendo dal luogo dove crescevano i salici. Imparava a conoscere quella terra selvaggia. Aveva molto da imparare. Non sapeva nulla delle zone selvagge, della vita nei boschi, delle piante. Gli alberi con le pigne erano pini. Gli alberi con i rami esili e splendenti erano salici. Hugh conosceva le quercie (c’era stata una quercia enorme nel campo giochi d’una delle scuole medie-superiori che aveva frequentato) ma nessuno degli alberi in quella foresta le somigliava. Comprò un libro sugli alberi più comuni e riuscì a identificarne parecchi: frassino, acero, ontano, abete. Tutto ciò che vedeva, tutto ciò che gli capitava sottomano lo interessava e lo teneva occupato, lì. E inoltre, pensava a ciò che non conosceva e che non aveva visto. Fin dove si estendeva il territorio selvaggio, la foresta? Aveva una fine? Ormai aveva percorso parecchie miglia lungo il ruscello e non c’erano cambiamenti, non c’era la minima traccia, il minimo segno della presenza umana. Persino gli uccelli e i mammiferi erano invisibili; Hugh seguiva le piste indistinte aperte dai cervi, ma non ne vedeva mai uno, a volte trovava un vecchio nido d’uccelli caduto al suolo, ma nella stagione immutabile e nel clima senza cambiamenti, non udiva mai il grido di un animale o il canto di un uccello.

Il ruscello, suo compagno e sua guida: che poteva pensarne? Doveva gettarsi in un fiume o diventare un fiume, più a valle, e grande o piccolo che fosse doveva finire per raggiungere il mare.

Hugh trattenne il respiro. Fissò stordito il suo fuoco, con la mente pervasa da quel pensiero: il mare che si estendeva oltre le coste della sera. L’oscurità verso la quale correva quell’acqua viva. Frangenti bianchi nell’ultimo crepuscolo, e al di là di quelli, gli abissi, la notte. La notte, e tutte le stelle.

Quella visione era così immensa e tenebrosa, il pensiero delle stelle era così terribile che quando lo abbandonò e Hugh tornò a guardare le solite rocce, le barene di sabbia, gli alberi, i rami, gli intrichi di foglie del luogo dov’era accampato, tutto gli parve piccolo e fragile, come un ninnolo, e il cielo piatto e chiaro era stranissimo.

Spesso, mentalmente, chiamava quel luogo «la terra della sera», a causa del crepuscolo eterno; ma ora pensava che quel nome fosse inesatto. La sera è il tempo del mutamento, la soglia della notte.

Il vento dolce che spirava lungo la valle del ruscello smosse la superficie del minuscolo lago. La visione lo sfiorò di nuovo: l’ampio gradino semibuio, la terra che era una soglia, e quel ruscello argenteo che l’attraversava e discendeva nella tenebra da chissà quali altezze, da quali monti orientali di un giorno inimmaginabile.

Hugh sedette di nuovo, frastornato, nel crepuscolo, certo di aver compreso per un momento perché considerava sacra quell’acqua.

— Dovrei proseguire — disse sottovoce. Ogni tanto parlava da solo, a mezza voce, una parola o una frase soltanto ad ogni visita.

Aveva incominciato a radersi, e continuò a farlo. Quel che lì sembrava durare un giorno e una notte poteva essere meno di un’ora nel mondo della luce diurna; ma la sua barba seguiva il suo tempo, non quello dell’orologio. Gli avrebbe semplificato la vita, lasciarla crescere (anche se a diciotto anni se ne era preoccupato, perché era folta, vigorosa, di colore bronzeo, e sua madre diceva continuamente che doveva radersi) ma i dipendenti di Sam’s Thrift-E-Mart non erano autorizzati a portare la barba. Aveva già dovuto discutere abbastanza per poter tenere i capelli come piaceva a lui, lunghi fino al colletto. Perciò l’ultimo rito nel luogo dei salici, prima di riporre la sua roba e di nasconderla, era radersi. Qualche volta scaldava l’acqua, ma se il fuoco s’era spento usava l’acqua fredda, stringeva i denti e si radeva; anche allora il contatto dell’acqua era gentile.

Sabato sera, disse a sua madre che sarebbe rimasto assente tutta la mattinata di domenica, per fare una lunga passeggiata «in campagna». Lei si lamentò ancora del chiasso che lui faceva quando si alzava presto, ma non mostrò altro interesse. Hugh uscì alle cinque del mattino, tenendo sotto il braccio un pacco di costosi viveri liofilizzati e congelati da trasferire nello zaino. Aveva intenzione di restare un po’ nella terra crepuscolare, di lasciare le zone che conosceva, di andare più oltre.

Aveva trovato un unico sentiero che sembrava una vera strada: quello che conduceva fuori dal luogo dell’inizio, nella direzione direttamente opposta alla porta. Passò da una pietra all’altra, al guado, superò i cespugli scuri dai quali era uscita la ragazza, molto tempo prima, settimane prima, e incominciò a salire il pendio, lasciando la valle del ruscello. Il sentiero saliva, piuttosto tortuosamente, ma mantenendosi sull’asse perpendicolare al ruscello, la direzione che Hugh sperava di poter mantenere. Aveva scoperto che, anche quando si sentiva momentaneamente disorientato nei boschi, verso monte, se si fermava e lasciava che la sensazione giungesse fino a lui, intuiva in modo generico dov’era la porta… dietro di lui, sulla sinistra, oltre quel dosso, o altrove; e quel senso non l’aveva ancora tradito. Adesso non aveva altra intenzione che tenere la porta direttamente dietro di sé, se poteva, e andare avanti fino a quando si fosse stancato.

Sulla cresta del dorsale, l’aria sembrava più leggera. Sull’altro versante gli alberi erano alti e sparsi, e il terreno in mezzo era sgombro, senza sottobosco. Appena accennato, ma abbastanza visibile all’occhio attento, il sentiero continuava a scendere. Quando lo seguì, oltre la cresta, perse per la prima volta il suono del ruscello, la voce che benediceva il suo sonno.

Camminò a lungo, con regolarità e con una certa ostinazione, traendo motivo d’orgoglio e di piacere dalla pronta resistenza del suo corpo. Il sentiero non diventò più nitido, ma neppure meno nitido. Altri viottoli se ne diramavano, probabilmente piste aperte dai cervi, ma quello principale restava sempre inconfondibile. Hugh sapeva che se fosse ritornato indietro, quel viottolo l’avrebbe ricondotto diritto al luogo dell’inizio. La sensazione dell’ubicazione della porta sembrava quasi acuirsi via via che se ne allontanava, come se la sua legge psichica di gravità fosse l’opposto di quella fisica.

Dopo aver attraversato un ruscello un po’ più piccolo di quello accanto alla porta, sedette in riva all’acqua rumorosa e mangiò un boccone; e quando proseguì si sentiva allegro, deciso a fidarsi della sua fortuna.


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