— Domani — disse poi, dove una breve pausa. — Chiedi se a loro va bene.

— Il capo sei tu.

— Cosa c’è che non va?

— Non so. Perché non possono dirlo… Non è giusto. Per quello che ne so, ti stanno mandando come un… non so. Un capro espiatorio. Un… — Ma Irene non riuscì a pensare la parola che cercava, e significava qualcosa dato in offerta.

— Sono bloccati — disse lui. — Non possono fare ciò che devono. Se io lo posso, lo farò. Va bene così.

— Non credo che dovresti andare.

— Sono venuto per questo — disse lui. La guardò, con assoluta franchezza. — Ma tu? Se credi che sia un brutto scherzo… È inutile che ci comportiamo da stupidi tutti e due.

Irene guardava la luce del fuoco scorrere in lunghe schegge di rosso dorato sulla lama della spada.

— Io conosco la strada, avrai bisogno di qualcuno. Comunque, non voglio restare qui. Non più.

— Io vorrei restare per sempre — disse lui sottovoce, guardando Allia: non il viso, bensì la mano candida contro l’abito verdazzurro.

— Molto probabilmente ci resterai — disse Irene, ma un’involontaria pietà smorzò la sua amarezza, il senso di un tradimento commesso e subito; e lui non la comprese.

Irene fu invitata a trattenersi a cena al maniero, ma si scusò e se ne andò al più presto possibile. Hugh non aveva bisogno di un’interprete; se la cavava meglio, senza parlare la lingua, di quanto se la cavasse lei che la parlava. E non sopportava più di stare con loro. Era colpa sua, era stata una sciocca, ma adesso era troppo tardi. Era troppo tardi per tutto. Non aveva dato ascolto all’uomo saggio e pericoloso, e aveva dato la sua promessa a uno con il cuore vuoto. Si era ingannata, aveva scelto d’essere una schiava. E adesso era rimasta a guardare il suo padrone, il suo specchio, e non scorgeva né fiducia, né onestà, né coraggio. L’oscurità di lui era vuota, e tutto ciò che Sark provava era invidia.

Eppure, se Allia l’avesse guardato, non avrebbe visto l’uomo fiero che aveva visto Irene? Loro due erano fatti l’uno per l’altra, lui scuro e vivido, lei bionda e fredda. Come non poteva provare invidia, quando Hugh le stava accanto? Fratello e sorella, aveva detto il Nobile Horn guardando Hugh e Allia, ma guardando Allia e Sark avrebbe detto innamorata e innamorato, moglie e marito. E così avrebbe dovuto essere. Tutto lì, era come avrebbe dovuto essere, come doveva essere; tutto tranne lei, che non apparteneva a quel luogo e a nessun luogo, perché non aveva una casa sua, nessuno di suo.

Irene cenò con Palizot e Sofir, e trascorse un po’ di tempo nella cucina illuminata dal fuoco, insieme a Palizot, dopo cena; ma era impossibile ritornare alla vecchia tranquillità. Il filo cui aveva affidato la sua vita era legato; il gioco era fatto. Aveva finto di essere la loro figlia, ma non era mai stato vero, e adesso la finzione era solo una costrizione imposta all’affetto. E sapendo che la mattina dopo sarebbe salita sulla montagna, sebbene cercassero di non mostrarlo provavano soggezione di lei. Sofir era avvilito. Palizot si destreggiava meglio, ma l’ipocrisia li metteva duramente alla prova tutti e tre, e ben presto Irene augurò loro la buonanotte e andò in camera sua.

Tirò le tende per escludere il chiarore immutabile del cielo, accese il fuoco, e sedette a pensare. Non le venne nessun pensiero degno d’essere pensato. Era stanca. Andò a letto. Prima di dormire, mentre ascoltava il vento che spirava a raffiche, e schiaffeggiava gli abbaini della vecchia casa, si disse: — Qualunque cosa accada, non tornerò a Tembreabrezi. È tempo di andare. Andare per sempre. Lui mi ha soltanto fatto promettere di fare ciò che avrei fatto comunque. — Non c’era consolazione in quel pensiero, tuttavia la acquietò. Il risentimento, il senso del tradimento, nascevano dalla resistenza alla consapevolezza che lei doveva andare, dalla finzione di poter tenere ciò che aveva amato. Non c’era nulla da temere, tranne forse la disponibilità ad amare. Se avesse perduto quella, sarebbe stata perduta completamente.

Si chiese perché non aveva più paura. Adesso la sua stanchezza era il ricordo, nei nervi e nei muscoli, dell’interminabile, nauseante paura che aveva provato arrivando lì, questa volta; ma sebbene si sforzasse di immaginare di avviarsi per la strada, di salire sulla montagna, nessun brivido spaventoso di gelo le nasceva nella bocca dello stomaco, nessun panico nelle pulsazioni del sangue o nella mente. Forse questo significava che finalmente aveva compiuto la scelta giusta… hai fatto quello per cui sei venuta, come aveva detto Hugh, povero Hugh, così pesante e ansioso, con i suoi occhi onesti. Lui sarebbe andato, sebbene non volesse andare, volesse restare. Quale scelta era giusta, dunque? Ma questo sarebbe risultato evidente poi, e nel frattempo non c’era la paura, ma soltanto il sonno, che lì saliva da sorgenti più profonde del sogno, al di là dello schermo delle parole o del tocco di una mano, la montagna che sta dentro la montagna, il mare che è nella sorgente, lì dove non pioveva mai.

Quando tutti si svegliarono, nella casa, lei si alzò, mise i jeans e la camicia e i desert boots, perché come sempre quando lasciava il suo paese, non intendeva portare nulla con sé oltre la soglia; ma poi andò alla cassapanca del corridoio, per prendere un vecchio mantello rattoppato che Palizot le aveva dato quando era scesa per la strada del nord insieme ai mercanti. Era di lana rossoscura, molto macchiato, sfrangiato all’orlo, ma teneva caldo, ed era facile da portare sulle spalle, arrotolato. Sofir, altrettanto convinto che quel viaggio non si sarebbe concluso in un giorno, le aveva preparato un pacco di carne secca e di formaggio e di pane scuro, senza dubbio sufficiente per diversi giorni, e Irene lo arrotolò dentro al mantello.

Lei e Palizot restarono abbracciate per un minuto. Nessuna delle due riusciva a parlare. Era una fine, e le parole sono fatte per gli inizi. Irene baciò Sofir, e Sofir baciò lei; quindi lasciò la locanda.

Quando uscì nel cortile vide Aduvan e Virti e altri bambini che l’aspettavano, eccitati ma un po’ impauriti o frastornati. Non parlarono molto, ma si raccolsero intorno a lei, come per chiederle di rassicurarli. Un gruppo stava scendendo la strada a gradini; Horn e Allia, Sark e Fimol, un gruppo di vecchi e di vecchie, e Hugh era in mezzo a loro, alto e bianco in volto, il bue condotto al macello. Attesero ai piedi della via e Irene, con la sua scorta di bambini, andò a raggiungerli.

Altri stavano sulle soglie, lungo la strada che attraversava la piccola città, verso ovest. Salutavano sottovoce il Nobile Horn con il suo titolo, e lei e Hugh per nome. — Irena, Irenadja. — Alcuni si unirono al loro gruppo, e altri si raccolsero ai crocicchi. Irene comprese che quella era la loro parata. Tristi e quieti, gli abitanti di Tembreabrezi si radunavano per onorarli, per augurare loro ogni bene, per accompagnarli con la loro speranza.

Un giovane padre sollevò il suo piccino perché vedesse passare Hugh. Quello mise addosso a Irene la voglia di ridere, una risata sciocca e beffarda, e fece una smorfia per reprimerla. Hugh, con la bella giubba di pelle che gli avevano regalato, e lo zaino, e al fianco la spada in un fodero di cuoio, sarebbe sembrato un eroe, se avesse saputo d’essere un eroe; ma appariva avvilito, imbarazzato, e aggobbiva le spalle e perdeva la sua parte di gloria perché nessuno gli aveva mai detto che aveva una parte di gloria.

La via che conduceva a ovest, fuori dalla città, cambiò, e il lastricato lasciò il posto alla terra battuta. Le case, ai due lati, erano più basse, e sempre meno numerose; e poi incominciarono i campi cinti da muretti di pietre, e i lunghi pascoli bassi dove adesso erano tutti i greggi, a ovest e a nord di Tembreabrezi. Molta gente s’era unita a loro, così che, mentre passavano tra i campi cintati, erano quaranta o cinquanta che camminavano insieme, a passo sciolto e in silenzio. Con un tuffo al cuore, Irene pensò: — Forse verranno con noi, forse avevano soltanto bisogno di incamminarsi insieme a noi, e potremo proseguire insieme. — Ma i genitori camminavano con i figli, adesso. Li avevano presi per mano; si chinavano verso di loro e parlavano sottovoce. Nessuno parlava forte. — Irena — disse Aduvan in un mormorio mesto, fermandosi accanto alla madre e al fratellino. Irene si voltò verso di loro. Altri bambini le tesero le braccia, sussurrando: — Addio! — Virti non volle darle un bacio; gridò, piagnucolando: — Non voglio vedere la cosa cattiva, non voglio vederla! — Trijiat tornò indietro con lui. Irene proseguì; si voltò indietro una volta sola; i bambini erano lì fermi sulla strada, nel crepuscolo. Dietro di loro, nella città, non c’era neppure una luce accesa.


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