Donne e uomini si fermarono, uno ad uno. Restavano immobili sulla strada, guardando gli altri che procedevano. Il vento lieve e irrequieto soffiava accanto a loro.

Il muro di pietra a secco, alto fino alla spalla, continuava sulla sinistra, e sulla destra un’alta siepe oscurava la via. Irene riusciva appena a distinguere le pietre biancastre del ponte che portava la strada della montagna oltre un torrentello, che più in basso si allargava in un ruscello e irrigava i pascoli. Quello sarebbe stato il confine: il ponte.

— Addio, Irena — disse sottovoce una donna, mentre lei passava. Il vento le gonfiava un po’ la gonna grigia, e il suo volto era pallido nella luce fioca della strada. Era la nonna di Aduvan, la madre di Trijiat; aveva insegnato a Irene come si filava la lana. — Addio — le disse Irene. La strada s’incurvava un po’ sulla sinistra, verso il ponte. Lei passò davanti al Padrone che stava rigido e disperato, con le mani strette contro i fianchi. Gli disse: — Addio, Sark — chiamandolo per nome, la prima e ultima volta. Lui non parlò; forse non poteva. Irene proseguì per qualche passo e si fermò accanto al Nobile Horn. La chioma di Allia, che gli era vicina, baluginava nella penombra della strada, come se avesse una luce propria, mentre lei stava di fronte a Hugh.

— Che la nostra speranza ti accompagni, che la nostra fiducia ti sostenga — disse Allia, con quella voce dolce e chiara, nella sua lingua. Lui disse soltanto, e soltanto Irene comprese: — Ti amo.

— Addio! — disse Allia, e lui ripeté la parola.

La mano del Nobile Horn, esile e leggera, era posata sulla spalla di Irene. Lei lo guardò, stupita. Sorridendo, Horn la baciò sulla fronte. — Vai senza guardarti indietro, figlia mia — disse.

Lei restò immobile, frastornata.

Hugh stava proseguendo verso il monte. Doveva andare con lui. Passò davanti ad Allia che stava sulla strada buia, silenziosa come una statua. Mi ha chiamata figlia, disse il suo cuore, mi ha chiamata figlia. Passò oltre. Tutti stavano in silenzio nella penombra della strada, dietro di lei. Non si voltò indietro.

La strada varcava il ponte e s’incurvava ancora di più a sinistra, verso ovest, incominciando a salire la montagna. Adesso c’erano alberi folti da una parte, l’alta siepe dall’altra. Era buio, su quella strada.

Hugh manteneva un’andatura elastica, un po’ più avanti di lei, e sulla destra; Irene lo vedeva come una massa in movimento nel crepuscolo.

La siepe aveva lasciato il posto alla foresta. I rami scuri s’incontravano in alto. La strada era cinta e coperta dai tronchi, dai rami, dalle foglie degli alberi. Una galleria. Squarci di cielo intravvisti fra le fronde. Il pesante odore di felci della foresta. Qualcosa di enorme e pallido torreggiava più avanti, ai margini della strada. Mentre il cuore di Irene sussultava, la sua mente disse: È il macigno, calmati, è solo il macigno accanto alla pista alta. Di già? Sì, di già, è passato molto tempo da quando abbiamo lasciato la città, da quando abbiamo attraversato il ponte, un paio di miglia. — Hugh — disse.

Solo adesso, parlando, sebbene la sua voce fosse poco più di un bisbiglio, udì il silenzio. Il vento era caduto. Nulla si muoveva. Era come la sordità. Non c’erano suoni.

Hugh s’era fermato, girandosi verso di lei.

— Da questa parte — mormorò Irena, indicando a sinistra. Non riusciva a parlare più forte. — Il sentiero che porta ai pascoli alti.

Lui annuì, e la seguì quando abbandonò la strada per il sentiero più stretto e scosceso, tracciato dagli zoccoli delle greggi, che saliva sulla montagna.

Il cuore di Irene continuò a battere forte, i suoi orecchi continuarono a ronzare. Era la salita, si diceva; ma non era quella. Era il silenzio. Se almeno qualcosa avesse emesso qualche suono, qualcosa oltre il suo passo e il suo respiro e il fievole drum-drum-drum negli orecchi, e Hugh che la seguiva, senza fare molto rumore; ma qualunque rumore lì era troppo forte.

Non avrò paura, non avrò paura. Basta che continui ad andare nella direzione in cui devo andare. Basta che non mi perda come una stupida.

Erano trascorsi due anni da quando aveva percorso quel sentiero. Allora aveva avuto l’abitudine di venire con i pastori e i bambini e le greggi, seguendoli. Ora doveva trovare la strada da sola. Continuava a dubitarne, ma non poteva sbagliarsi; guarda la pista, si diceva, è la pista delle pecore, là ci sono i loro escrementi secchi, là ci sono i segni lasciati dai loro zoccoli, questa è la strada giusta. Non avrò paura.

I cespugli avevano incominciato a invadere la pista, da quando era stata abbandonata. Non era un sentiero faticoso, ma richiedeva un’attenzione costante, ed era tutto in salita. All’improvviso, alla sommità di un tratto scosceso, uscirono dall’oscurità della foresta. L’aria sembrava quasi luminosa. C’era una chiara visuale della terra e del cielo. Erano usciti a un’estremità del Prato Lungo, un immenso pascolo alpino, una terrazza sulla parete nord-est della montagna.

Irene si fermò sotto gli ultimi alberi, tra l’erba alta, riprendendo respiro dopo la salita. Hugh stava accanto a lei: vedeva il suo petto sollevarsi e abbassarsi in profondi respiri regolari mentre guardava il grande prato e i pendii che si ergevano ripidi, al di sopra.

— È questo, il posto? — le chiese.

Erano le prime parole che pronunciava da quando avevano attraversato il ponte.

— No. Siamo circa a metà strada, credo. Il Gradino Alto è avanti, lassù. — Lei additò le pareti grige e le balze che incombevano sul Prato Lungo, lontano, sulla destra del punto dove stavano. — Con le pecore, ci volevano sempre due giorni per arrivare fin là; si accampavano qui, nel Prato Lungo.

— Mi domandavo perché mi avevano dato tutti questi viveri.

— San Giorgio e i panini — disse Irene; e un convulso d’ilarità pazza la investì e l’abbandonò con la stessa rapidità con cui era sopraggiunto. Guardò Hugh. S’era liberato dello zaino e della giubba di pelle, e si stava riassestando la cintura con una smorfia. — Questa maledetta spada continua a farmi inciampare. — Alzò la testa e incontrò lo sguardo di lei. — È tutto fasullo — disse, e arrossi. — Una commedia.

— Lo so.

Ma il silenzio aleggiava intorno alle loro voci, ed entrambi lo udivano.

— Non senti la… — Lui esitò, con goffa delicatezza. — …la paura?

— Non esattamente. Mi sento nervosa, ma non… ho l’impressione che abbia voltato le spalle.

Hugh sistemò la spada come voleva, si passò la mano tra i capelli, e sospirò, rumorosamente, ouf!

— Non l’hai mai sentita? — chiese Irene, incuriosita.

— Non credo.

— Molto bene.

— L’ultima volta, quando sono passato oltre la porta, ero spaventato. Lo sai. Spaventato davvero, in preda al panico. Ma perché temevo di perdermi. Non è così, vero?

Lei scrollò la testa. — No, affatto. È piuttosto la sensazione che troverai qualcosa che non vuoi trovare. Hugh fece una smorfia.

— È spaventoso — disse Irene. — Ma qui non ho mai avuto paura di perdermi. So sempre dov’è la porta. E la piccola città. E la Città del Re, credo.

Lui annuì. — Sono tutte sulla stessa linea, lo stesso asse. Ma quando sono passato oltre la porta, l’ho perduto. Sembrava tutto eguale. Non riconoscevo neppure il ruscello della soglia, quando l’ho attraversato. Se non ti avessi incontrata…

— Ma eri sul sentiero… o quasi. Direi che ti eri lasciato prendere dal panico e non riflettevi.

— Quando hanno detto che dovevo salire la montagna, abbandonando l’asse, stavo per lasciarmi prendere di nuovo dal panico. Quando tu hai detto che saresti venuta, mi è sembrato… Lo sai. Come se avessi una possibilità.

Stava cercando di ringraziarla, ma lei non sapeva come accettare un ringraziamento.

— Perché hai parlato di commedia?

— Non so. — Hugh continuò a guardare il prato. Miglia d’erba alta, senza fiori, verde e argentea nella luce immutabile, lievemente piegata dal vento. Il cielo era vuoto. Né un uccello, né una nuvoletta. — La spada, credo.


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