«Perché i maz avevano avuto tutta la ricchezza, tutto il potere. Tenevano la gente nell’ignoranza, la istupidivano con riti e superstizioni.»
«Ma i maz non tenevano la gente nell’ignoranza! Cos’è la Narrazione se non insegnare tutto quello che si sa a chiunque voglia ascoltare?»
Il Controllore esitò, si passò una mano sulla bocca. «Quello era il vecchio sistema, forse… Quello di una volta, forse. Ma le cose sono cambiate. In Dovza, i maz erano oppressori dei poveri. Tutta la terra apparteneva all’umyazu. Le loro scuole insegnavano solo conoscenze inutili, fossilizzate. I maz rifiutavano di concedere alla gente la nuova giustizia, il nuovo sapere…»
«Con la violenza?»
Lui esitò ancora.
«Sì. A Beisi la folla reazionaria uccise due funzionari dello Stato Azienda. C’era disobbedienza ovunque. Disprezzo della legge.»
Si massaggiò con energia la faccia, anche se la tempia e la guancia chiazzate di lividi dovevano dolergli.
«È questo che è successo» riprese. «La tua gente è venuta qui e ha portato con sé un nuovo mondo. La promessa che il nostro mondo sarebbe cresciuto, sarebbe migliorato. Ecco cosa volevano darci. Ma coloro che volevano accettare quel mondo erano frenati, ostacolati dalle vecchie usanze. Dalle vecchie consuetudini in ogni campo… I maz continuavano a farfugliare cose accadute diecimila anni fa, sostenendo di sapere tutto di tutto, rifiutandosi di apprendere qualcosa di nuovo, tenendo la gente nella povertà, impedendoci di uscire da una condizione di arretratezza. Erano egoisti. Usurai della conoscenza. Era necessario spingerli da parte, fare largo al futuro. E se continuavano a intralciare il cammino, bisognava punirli. Dovevamo dimostrare alla gente che sbagliavano. I miei nonni sbagliavano. Erano nemici dello stato. Non volevano ammetterlo. Si rifiutavano di cambiare.»
Aveva cominciato a parlare con voce calma, ma aveva concluso col respiro affannoso, lo sguardo fisso di fronte a sé, le mani serrate sul piccolo sillabario.
«Cos’è successo ai tuoi nonni?»
«Furono arrestati poco tempo dopo il mio trasferimento a casa di mio padre. Rimasero un anno in prigione, a Tambe…» Una lunga pausa. «Un gran numero di capi reazionari recalcitranti vennero portati a Dovza City per un giusto processo pubblico. A quelli che abiurarono fu concesso il lavoro riabilitativo nelle aree agricole dell’Azienda.» La sua voce era spenta. «Quelli che non abiurarono furono giustiziati dai produttori-consumatori di Aka.»
«Fucilati?»
«Furono condotti nella Grande Piazza della Giustizia…» Yara s’interruppe di colpo.
Sutty ricordava il posto, un grande spiazzo lastricato, circondato dai quattro imponenti edifici che ospitavano il Tribunale Centrale. Di solito era intasato da veicoli in coda e pedoni frettolosi.
Yara riprese a parlare, continuando a guardare di fronte a sé, a guardare la scena che stava raccontando.
«Erano tutti in mezzo alla piazza, dentro un perimetro di corda, sorvegliati dalla polizia. La gente era arrivata da ogni parte per vedere applicata la pena. C’erano migliaia di persone nella piazza. Tutte attorno ai criminali. E in tutte le strade che conducevano nella piazza. Mio padre mi portò ad assistere. Eravamo a una finestra del palazzo della Corte Suprema. Mi mise davanti a lui, perché vedessi. C’erano mucchi di pietre, pietre di umyazu demoliti, grossi mucchi di pietre agli angoli della piazza. Non sapevo a cosa servissero. Poi la polizia diede un ordine, e tutti avanzarono verso il centro della piazza, dove si trovavano i criminali. Cominciarono a percuoterli con le pietre. Alzavano e abbassavano le braccia e… Avrebbero dovuto scagliarle, le pietre, lapidare i criminali, ma c’era troppa gente. La piazza era troppo affollata. Centinaia di poliziotti, e tutta quella gente. Così li picchiarono a morte. Fu una cosa lunga.»
«Hai dovuto guardare?»
«Mio padre voleva che vedessi che avevano sbagliato.»
Yara parlava con voce abbastanza ferma, ma la sua mano, la bocca, lo tradivano. Non aveva mai lasciato quella finestra affacciata sulla piazza. Aveva dodici anni ed era là, a guardare per il resto della vita.
Così aveva visto che i suoi nonni avevano sbagliato. Cos’altro poteva aver visto?
Ancora un lungo silenzio. Di entrambi.
Seppellire il dolore in profondità, così in profondità da non doverlo mai più provare. Seppellirlo sotto qualsiasi cosa, ogni cosa. Essere un bravo figliolo. Una brava ragazza. Camminare sulle tombe e non abbassare mai lo sguardo. Tieni lontano il cane che è amico della gente… Ma non c’erano tombe. Facce spappolate, crani sfondati, capelli grigi sporchi di sangue raggrumato… ammucchiati in mezzo a una piazza.
Frammenti ossei, otturazioni, schizzi finissimi di carne esplosa, una zaffata di gas. L’odore dell’incendio tra le rovine di un edificio sotto la pioggia.
«Così, poi sei vissuto a Dovza City. E sei entrato nell’Azienda. Nel Dipartimento Socioculturale.»
«Mio padre assunse degli insegnanti privati per me. Per correggere la mia istruzione. Superai gli esami brillantemente.»
«Sei sposato, Yara?»
«Lo sono stato. Per due anni.»
«Niente figli?»
Lui scosse la testa.
Continuò a fissare il vuoto. Era seduto rigido, immobile. Il sacco a pelo era tenuto sollevato sopra un ginocchio da una specie di intelaiatura costruita da Tobadan per immobilizzare l’arto e alleviare il dolore. Il piccolo libro era vicino alla sua mano: FRUTTI GEMME DELL’ALBERO DEL SAPERE.
Sutty si piegò in avanti per sciogliere i muscoli delle spalle, si drizzò di nuovo.
«Goiri mi ha chiesto di parlarti del mio mondo. Forse posso farlo, perché la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua, sotto certi aspetti… Ti ho parlato degli Unisti. Una volta assunto il governo della nostra parte del paese, cominciarono a effettuare nei villaggi quelle che chiamavano operazioni di purificazione. La situazione era sempre più critica, per noi. La gente ci diceva di nascondere i nostri libri, o di gettarli nel fiume. Zio Hurree stava morendo, allora. Aveva il cuore stanco, diceva. Disse a Zietta di sbarazzarsi dei libri, ma lei non lo fece. E lui morì circondato dai suoi libri.
«Dopo la morte dello zio, i miei genitori riuscirono a fare andar via dall’India Zietta e me. Ci mandarono dall’altra parte del mondo, in un altro continente, a nord, in una città dove il governo non era religioso. C’erano alcune città del genere, perlopiù dove l’Ekumene aveva fondato scuole che insegnavano il sapere hainiano. Gli Unisti odiavano l’Ekumene e volevano tenere lontano dalla Terra tutti gli extraterrestri, ma avevano paura di provare a farlo direttamente. Così incoraggiavano il terrorismo contro le Riserve e le installazioni ansible e tutte le altre cose di cui erano responsabili i demoni extraplanetari.»
Usò la parola inglese "demoni", perché non ne esisteva una analoga in dovzano. S’interruppe un attimo, trasse volutamente un respiro profondo. Yara sedeva in assoluto silenzio, ansioso di ascoltare.
«Così andai al liceo e all’università in quella città, e iniziai l’addestramento per lavorare per l’Ekumene. In quel periodo, più o meno, l’Ekumene mandò sulla Terra un nuovo rappresentante, un uomo di nome Dalzul, che era cresciuto sulla Terra. Dalzul riuscì a esercitare un’influenza considerevole tra i Padri unisti. In poco tempo, lasciarono che fosse lui ad assumere il controllo in misura sempre maggiore, a dare gli ordini. Dicevano che era un angelo… sarebbe un messaggero di dio. Alcuni di loro cominciarono a dire che avrebbe salvato tutta l’umanità e che li avrebbe avvicinati a dio, e così…» Non esisteva nessuna parola akana che significasse "adorazione". «Si stendevano a terra davanti a lui e lo lodavano e lo supplicavano di essere buono con loro. E facevano qualsiasi cosa Dalzul dicesse loro di fare, perché quella era la loro idea di comportarsi bene… obbedire agli ordini di dio. E pensavano che Dalzul parlasse a nome di dio. O che fosse dio. Così, nel giro di un anno, Dalzul li costrinse a smantellare il regime teocratico. Nel nome di dio.