La paura continuò a tormentarlo durante la cena, quando nessuno sedette accanto a lui nella sala mensa. Gli altri chiacchieravano di varie cose: il grande schermo a una delle pareti, il cibo, i ragazzi più grandi. Ender, nel suo isolamento, poté soltanto guardarsi attorno.

Sullo schermo apparivano i nomi delle squadre in gara. Le vittorie, le sconfitte e i punteggi raggiunti. Gli parve che alcuni dei ragazzi più grandi avessero fatto delle scommesse sulle ultime competizioni. Due squadre, le Mantidi e le Vipere, non avevano punteggi recenti ma i loro nomi lampeggiavano. Ender decise che stavano gareggiando proprio in quel momento.

Aveva già notato che i ragazzi più anziani erano suddivisi in gruppi, a seconda delle uniformi che indossavano. Alcuni con uniformi diverse parlavano fra loro, ma in generale ciascun gruppo disponeva di una propria zona. I pivelli (i suoi compagni, più due o tre gruppi appena di poco più anziani) portavano tute di un uniforme colore azzurro. Ma i ragazzi più grandi, quelli suddivisi in squadre, esibivano indumenti multicolori e sgargianti. Ender cercò di capire da essi quali fossero i loro nomi. Api e Ragni erano facili da indovinarsi. E così anche le Fiamme e le Onde.

Un ragazzo più alto venne a sedersi al suo fianco. Non era soltanto più alto: dimostrava dodici o tredici anni. La sua corporatura era già quella di un adulto.

— Ehilà — disse.

— Ehilà — rispose Ender.

— Io mi chiamo Mick.

— Io Ender.

— Di cognome?

— No. Fin da piccolo mia sorella mi chiamava così.

— Non è un nome malvagio, qui dentro. Ender… quello che finisce, eh?

— Così spero.

— E sei tu lo Scorpione del tuo gruppo, Ender?

Lui scrollò le spalle.

— Mi sono accorto che ti fanno mangiare da solo. Ogni mandata di pivelli ne ha uno così. Uno che tutti gli altri scansano. A volte penso che gli insegnanti lo facciano apposta. Qui gli insegnanti non sono esattamente dei simpaticoni. Lo avrai notato.

— Già.

— Allora, sei tu lo Scorpione?

— Così credo.

— Ehi! Non è il caso di piangerci sopra, ti pare? — Prese il budino di Ender, e gli diede in cambio la sua brioche. - Tutta roba nutriente, qui. Vogliono farci crescere robusti. — Mick attaccò di gusto il budino.

— Tu di che gruppo sei?

— Io? Di nessuno. Sono uno stronzo nell’impianto dell’aria condizionata.

Ender cercò di sorridere volonterosamente.

— Divertente, già, ma non è uno scherzo. Io non combino niente di buono qui dentro. E ora sono cresciuto. Molto presto mi spediranno alla mia prossima scuola. Solo che non sarà la Scuola Ufficiali, ci puoi scommettere. Non sono mai stato portato a comandare, capisci? E soltanto chi ha doti di comando ha una possibilità di arrivare là.

— Come si fa per dimostrare doti di comando?

— Eh! Se lo sapessi, ti pare che sarei ancora dove sono? Quanti ragazzi alti come me vedi, qui dentro?

Non molti, notò Ender, ma non lo disse.

— Pochi, vero? Non sono io il solo già mezzo congelato, cibo da Scorpioni. Siamo in pochi. Gli altri bei tipi… quelli sono tutti al comando di un’orda. Tutti quelli arrivati qui con me adesso hanno la loro orda. Io no.

Ender annuì.

— Ascoltami, ragazzino. Voglio insegnarti una cosa. Fatti degli amici. Diventa un capo. Lecca pure il culo a qualcuno, se dovrai farlo, ma attento che se gli altri cominciano a disprezzarti… capisci cosa voglio dire?

Ender annuì di nuovo.

— Adesso tu non sai niente di niente. Voi pivelli siete uno uguale all’altro. Non sapete niente. Cervelli vuoti come lo spazio, con niente dentro. E qualunque cosa vi troviate davanti, ci sbattete la faccia. Perciò, se farai la mia stessa fine, ricorda che qualcuno ti aveva avvisato. Queste parole sono l’ultimo favore che ti viene fatto qui, amico.

— Perché mi dici questo, allora? — chiese Ender.

— Cosa sei, un chiacchierone? Taci e mangia.

Ender tacque e mangiò. Mick non gli piaceva. E si disse che non c’era la minima possibilità che anche lui facesse quella fine. Forse era proprio ciò che gli insegnanti avevano progettato, ma lui non intendeva affatto adeguarsi ai loro piani.

Io non sarò lo Scorpione del mio gruppo, pensò. Non ho lasciato Valentine e mamma e papà solo per venire qui e finire congelato.

Mentre si portava la forchetta alla bocca gli parve di sentire la presenza della sua famiglia intorno a lui, vicini come gli erano sempre stati. Sapeva che se avesse girato la testa in un certo modo e alzato lo sguardo avrebbe visto il viso di sua madre, occupata ad ammonire Valentine di non sbrodolarsi. Sapeva esattamente dove si trovava suo padre, intento a leggere il suo video-giornale preferito ed a fingere di prender parte alle solite chiacchiere dell’ora di colazione. Mentre Peter, con due stuzzicadenti ficcati nelle narici, imitava un tricheco… anche Peter sapeva essere spiritoso.

Pensare a loro fu uno sbaglio. Sentì un singhiozzo che tentava di salirgli in gola e lo ricacciò giù. Non riusciva neppure a vedere il suo piatto.

Ma non poteva mettersi a piangere. Era da escludersi che qualcuno gli avrebbe mostrato un po’ di compassione. Dap non era Mamma. Ogni segno di debolezza avrebbe informato gli Stilson e i Peter che quel ragazzino poteva essere schiacciato. Ender fece ciò che faceva ogni volta che Peter accennava a tormentarlo. Cominciò a contare raddoppiando: uno, due, quattro, otto, sedici, trentadue, sessantaquattro. E via di seguito finché riuscì a visualizzare i numeri nella mente: 128, 256, 512, 1024, 2048, 4096, 8192, 16384, 32768, 65536, 131072, 262144. Quando giunse a 67108864 cominciò a essere incerto: aveva sbagliato una cifra? Avrebbe dovuto essere sempre nelle decine di milioni oppure nelle centinaia di milioni, o forse ancora sotto i dieci milioni? Cercò di raddoppiare nuovamente e perse il conto. 1342 e qualcos’altro. 16? O 17738? Bestia che sei. Ricomincia daccapo. Raddoppia con più attenzione. Il dolore se n’era andato. Le lacrime non cercavano più di uscire. Non avrebbe pianto.

Non fino a quella notte, dopo che le luci furono abbassate, quando di lontano udì i singhiozzi soffocati di qualche ragazzino che piangeva per sua madre, o suo padre, o per il cane che non avrebbe visto più. Le labbra di lui formarono il nome di Valentine. Gli parve di sentire la sua voce ridere da qualche parte, giù in soggiorno. Vide Mamma passare davanti alla sua porta, fermandosi a sbirciare dentro per esser certa che tutto andasse bene. Sentì la voce di Papà commentare qualcosa, davanti alla TV. Era tutto ancora così nitido in lui, eppure non sarebbe mai più accaduto. La prossima volta che li rivedrò sarò diventato vecchio, dodici anni a dir poco. Perché ho detto di sì? Cosa mi ha fatto fare questa sciocchezza? Andare a scuola sarebbe stato niente in confronto. E anche dover affrontare Stilson. E Peter. Erano due cacasotto, Ender non aveva più paura di loro.

Voglio andare a casa, sussurrò nel buio.

Ma il suo sussurro era quello che gli usciva di bocca quando Peter lo costringeva a gemere di dolore. Era un sussurro che non andava più lontano dei suoi stessi orecchi, e talvolta non giungeva neppure a quelli.

E le indesiderate lacrime poterono scivolare sulle sue guance, accompagnate da singhiozzi così lievi che non destavano un fremito nelle molle del letto, così silenziosi che nessuno li avrebbe uditi. Ma il dolore era lì, chiuso nella sua gola e rigido nella smorfia del viso, caldo nel suo petto e liquido sotto le palpebre tremanti. Voglio tornare a casa!

Quella notte Dap entrò nella camerata e si mosse lento fra le cuccette, toccando una fronte qua, una mano là. Al suo passaggio i pianti divenivano più intensi, invece di smorzarsi. Quel tocco di gentilezza in un posto così freddo e sconosciuto bastava a spingere i ragazzini oltre l’orlo delle lacrime. Non Ender, però. Quando Dap gli fu accanto i suoi singhiozzi erano spenti, il suo volto asciutto. Era il volto bugiardo che lasciava vedere a Mamma e a Papà, quando non osava far loro capire che Peter era stato crudele con lui. Grazie per questo, Peter. Per gli occhi asciutti e i singhiozzi silenziosi. Tu mi hai insegnato come nascondere ciò che sento. E adesso ho bisogno di questo più che mai.


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