C’era sempre una scuola. Ogni giorno ore ed ore da trascorrere in classe. Letture. Numeri. Storia. Filmati di battaglie sanguinose avvenute nello spazio, coi marines che spargevano le loro budella sulle paratie delle navi degli Scorpioni. Olografie di nitide manovre belliche della Flotta, e astronavi che si trasformavano in sbuffi di luce mentre gli equipaggi uccidevano e venivano uccisi nella profonda notte cosmica. Molte cose da imparare. Ender lavorò duro come ogni altro, e tutti loro dovettero per la prima volta nella vita impegnarsi al massimo, perché per la prima volta erano in competizione con compagni di classe intelligenti almeno quanto loro.
Ma i giochi… era questo ciò per cui vivevano. Ciò che riempiva le loro ore fra il mattino e la sera della stazione spaziale.
Dap li condusse nella sala dei giochi fin dal secondo giorno. Era in uno dei ponti superiori, piuttosto in alto rispetto al livello in cui i ragazzini vivevano e lavoravano. Si arrampicarono lungo scale dove la gravità diminuiva gradatamente, e in una grande caverna metallica videro lampeggiare le policrome luci dei giochi.
Alcuni erano giochi che avevano già fatto a casa loro, altri erano sconosciuti. C’erano quelli facili e quelli difficili. Ender oltrepassò la fila dei giochi sugli schermi bidimensionali e cominciò a osservare quelli dei ragazzi più grandi, i giochi olografici con gli oggetti che si spostavano nell’aria. Ben presto fu il solo del suo gruppo ad aggirarsi in quella zona della sala, e ogni tanto inciampava in uno dei giocatori, che trovandoselo troppo vicino non esitava a spingerlo via. Tu che stai facendo qui? Sparisci, pivello. Vola via. E naturalmente le spinte lo facevano volare, lì in quella gravità così bassa. I suoi piedi si staccavano dal suolo e lui roteava altrove, finché non andava a sbattere in qualcosa o in qualcuno.
Ogni volta, tuttavia, si districava dall’ostacolo e tornava indietro, non sempre nello stesso posto esatto, per studiare il gioco da un’angolazione diversa. Era troppo piccolo per arrivare a veder bene i pannelli di controllo, da cui le partite erano regolate. Questo non gli era d’ostacolo. Ne esaminava i risultati nel campo visivo tridimensionale. Studiava la tecnica con cui il giocatore scavava tunnel nella tenebra, tunnel di luce, a caccia dei quali le navi nemiche si sarebbero gettate per poi seguirli spietatamente fino a trovare quella del giocatore. Il vascello cacciato poteva lasciare trappole dietro di sé, mine, missili automatici, falsi percorsi che costringevano la nave inseguitrice a girare in tondo interminabilmente. Alcuni giocatori erano molto abili. Altri perdevano la gara fin dall’inizio.
Quello che però appassionava Ender erano le partite in cui due ragazzi si battevano fra loro, non contro la macchina. In tal caso ognuno poteva usare i tunnel dell’altro, e presto diveniva chiaro chi dei due stava usando la strategia più efficace.
Quel gioco in particolare cominciò a sembrargli insipido dopo appena un paio d’ore, tanto gli era bastato per capirne le regole. O meglio, capì le regole secondo cui funzionava il computer, e quindi fu certo che una volta appreso l’uso dei comandi sarebbe riuscito a sventare fatalmente le manovre dell’avversario. Spirali quando la nave nemica avanzava in un certo modo, circoli chiusi quando si spostava in un altro. Fingere di cadere in alcune delle trappole, farle scattare a vuoto giocando sugli impulsi di vicinanza per le prime sei, trasformare la settima in una falsa trappola con un espediente tecnico. Non si trattava di una sfida vera e propria, era soltanto questione di giocare finché il computer diventava così veloce da superare i riflessi umani. Ma col computer non era divertente. A lui interessava competere con un avversario umano. Con quei ragazzi talmente addestrati a battersi contro la macchina che anche durante le sfide reciproche tentavano di emulare il computer. E che pensavano come una macchina invece che come un ragazzo.
Potrei batterli con questo sistema. Potrei batterli con quest’altro.
— Mi piacerebbe fare una partita con te — disse al giocatore che aveva appena vinto.
— Santo cielo, e questo cos’è? — esclamò il ragazzo. — Una piattola che parla con voce umana?
— Hanno appena tirato a bordo un’infornata di lattonzoli — gli rispose un altro.
— Ma questo parla. Chi gli ha tolto il ciucciotto dalla bocca?
— Ho capito — annuì Ender. — Hai paura di giocare con me. Due partite su tre, se te la senti.
— Stracciarti sarebbe più facile che pisciare nel lavandino, bimbo.
— E divertente neanche la metà — aggiunse l’altro ragazzo.
— Io sono Ender Wiggin.
— Apri l’audio, piattola. Tu sei nessuno. Ricevuto? Tu sei esattamente un nessuno, sintonizzati su questo. E resterai un nessuno finché non avrai ammazzato il tuo primo qualcuno. Chiudi pure l’audio e fila.
Il gergo dei ragazzi più grandi aveva un suo ritmo. Ender non mancò di apprezzarlo. — Se io sono nessuno, come va che tu hai paura di giocare a due su tre con me?
Adesso gli altri stavano emettendo grugniti d’impazienza. — Regalati dieci secondi per far fuori questa piattola, e leviamocela dai piedi.
Fu così che Ender prese posto ai comandi, a lui del tutto sconosciuti. Le sue mani erano piccole, ma leve e tasti avevano uno schema abbastanza semplice. Gli bastò sperimentare i pulsanti per accertarsi di quali armi comandavano. I controlli dei movimenti erano riuniti in una leva di tipo standard. Dapprima i suoi riflessi furono lenti e incerti. L’altro ragazzo, che non gli aveva ancora detto il suo nome, procedette invece con inflessibile rapidità. Ma Ender apprese ciò che non sapeva, e prima che la partita fosse terminata stava andando molto meglio.
— Soddisfatto, pivello?
— Abbiamo detto due partite su tre.
— Qui non usa né il due su tre, né il tre su cinque, bimbo.
— Sei stato bravo a battermi la prima volta che tocco questa macchina — disse Ender. — Se riesci a battermi anche la seconda, ammetterò che puoi farlo sempre.
Cominciarono a giocare di nuovo, e stavolta Ender fu abbastanza svelto da riuscire a mettere in atto alcune manovre che il ragazzo, ovviamente, non aveva mai visto prima. I suoi schemi attacco-difesa non poterono competere con esse. Ender dovette sudare per vincere, ma ce la fece.
I ragazzi più grandi smisero di ridacchiare e di fare commenti spiritosi. La terza partita si svolse nel più completo silenzio. Ender la vinse con grande rapidità ed efficienza.
Quando fu finita uno dei presenti emise un grugnito. — Fra ieri e oggi devono aver modificato questa macchina. Qualcuno l’ha adattata perché anche i lattonzoli possano giocare e vincere.
Non una parola di congratulazione. Un freddo silenzio fu il solo saluto che seguì Ender mentre se ne andava.
Non andò molto lontano. Pochi passi più in là si fermò accanto a un’altra macchina, e con la coda dell’occhio sbirciò per vedere se i successivi due giocatori cercavano di mettere in atto i metodi che aveva appena mostrato loro. Lattonzolo, eh? Ender sorrise dentro di sé. Quel che hanno visto non lo dimenticheranno.
Adesso si sentiva meglio. Aveva vinto qualcosa, e contro dei ragazzi più grandi. Probabilmente non i migliori fra gli allievi, e tuttavia questo bastava per liberarlo dalla sensazione terrorizzante d’essere un pesce fuor d’acqua, troppo inferiore alle esigenze della Scuola di Guerra. Ora non doveva far altro che osservare i giochi, capire come funzionavano e poi usare il sistema più adatto. O una variazione migliore.
Fu il fatto di attendere e di osservare che venne a costargli un prezzo. Perché in quel periodo ci furono cose che dovette sopportare. Il ragazzino a cui lui aveva rotto un braccio aveva giurato vendetta. Il suo nome, come Ender apprese subito, era Bernard. Parlava con chiaro accento francese, poiché i francesi, col loro arrogante Separatismo, affermavano che l’insegnamento dello Standard non doveva cominciare fino ai quattro anni di età, e per allora i bambini avevano già assimilato profondamente la lingua madre. Il suo accento lo rendeva un tipo esotico e dunque interessante; il suo braccio rotto aveva fatto di lui un martire; il suo sadismo lo trasformò in un capo naturale per tutti quelli a cui piaceva veder soffrire gli altri.