Uno dei compagni di branco guardò Ender e scosse il capo. — Solo lo sciocco sputa nel piatto dove mangia.

Ender si volse a controllare Dink, che stava disegnando sul proprio banco. Come se lo fosse aspettato Dink alzò gli occhi e gli restituì in silenzio uno sguardo fermo. Nessuna espressione, nessun cenno. Benissimo, pensò Ender. So prendermi cura di me stesso.

Due giorni dopo ci fu una battaglia. Era la prima volta che Ender si batteva come parte di un branco, e questo lo rendeva nervoso. I ragazzi di Dink si allinearono sul lato destro del corridoio, e luì cercò di imitarne l’atteggiamento sicuro e noncurante. Almeno fingi, si disse a dentri stretti.

— Wiggin! — lo chiamò Rose de Nose.

Ender sentì la tensione bloccargli d’un tratto la gola, e una goccia di sudore gli scivolò lungo una guancia. Rose la notò.

— Tremante? Sudato? Non bagnare la tua tuta nuova, pivello. — Rose gli batté un dito sul calcio della pistola, poi lo spinse verso il campo di forza che celava alla vista l’interno della sala di battaglia. — Adesso vedremo quanto sai esser bravo, Ender. Appena questa porta si apre, tu schizzi dentro e fili dritto avanti verso la porta nemica. OK?

Un suicidio. Autodistruzione immotivata e senza significato. Ma lui doveva eseguire gli ordini, quella era una battaglia e non una seduta di allenamento. Per un attimo l’ira gli fece stringere i denti, poi si costrinse alla calma. — Eccellente, signore. — Annuì. — La direzione in cui sparerò sarà quella del loro contingente principale.

Rose sorrise ampiamente. — Sparare? Non ti daranno neppure il tempo di sputare, bambino.

Il muro d’energia svanì. Ender balzò in alto, si aggrappò al corrimano superiore e con una torsione puntò i piedi in «basso», poi si spinse verso la porta nemica.

Avevano di fronte l’orda dei Millepiedi, e i soldati stavano appena cominciando a uscire dalla loro porta quando Ender era già a mezza via nella sala di battaglia. Molti di loro furono svelti a saltare al riparo delle stelle, ma lui aveva ripiegato le gambe sotto di sé e, con la pistola fissa nel varco fra le ginocchia per assicurarsi la mira, sparò un colpo dopo l’altro centrando gli avversari al momento del loro ingresso nel locale.

Gli congelarono le gambe, cosa che servì soltanto a regalargli altri preziosi secondi prima d’arrivare sotto il fuoco di quelli allargatisi ai lati. Ne colpì ancora diversi, quindi allargò le braccia in croce, puntando quello armato verso il grosso dell’orda dei Millepiedi. Fece fuoco sui loro corpi in rapido spostamento, e subito dopo una gragnuola di colpi lo congelò.

Un secondo più tardi andò a sbattere in pieno sul campo di forza della porta nemica, che lo rispedì indietro roteante come una trottola. Ormai inerme finì in mezzo a un branco di avversari attestati dietro una stella, e uno di loro lo tolse di mezzo con un calcio che lo fece roteare ancor più velocemente. Per il resto della battaglia rimbalzò qua e là, mentre la frizione dell’aria lo faceva rallentare poco a poco. Non aveva modo di sapere quanti Millepiedi fosse riuscito a metter fuori causa, ma poté stabilire che l’orda dei Topi stava comunque vincendo, come al solito.

Dopo la battaglia Rose non gli disse verbo. Ender risultava sempre primo nella classifica dell’efficienza, poiché ne aveva congelati tre, disabilitati interamente due, e parzialmente altri sette. Non vi furono più accenni al suo comportamento insubordinato, né proibizioni di usare il banco. Rose restò nella sua zona della camerata e lo lasciò in pace.

Dink cominciò a sperimentare la tattica dell’uscita istantanea dal corridoio; l’attacco di Ender mentre il nemico era ancora in fase d’ingresso era stato giudicato devastante. — Se un solo uomo può fare tanto danno, pensate cosa riuscirebbe a ottenere un branco. — Dink convinse il maggiore Anderson a far aprire una porta nel centro di una parete, nelle sedute di allenamento, al posto di quella a livello del «pavimento», per esercitarsi alle uscite di slancio in condizioni di battaglia. La voce si sparse subito. Da quel giorno in poi nessuno avrebbe concesso ai suoi uomini di uscire in campo con tutta calma. Le gare erano cambiate.

Ci furono altre battaglie. Ender vi partecipò svolgendo il suo ruolo come parte del branco. Commise degli errori. Parecchi scontri lo videro soccombere. Nella classifica scese dapprima al secondo posto, poi al quarto. Ma più imparava come porre rimedio ai suoi sbagli, più si adattava e si affiatava al branco, e riuscì a risalire al terzo posto, quindi al secondo e di nuovo al primo.

Un pomeriggio, dopo gli allenamenti, Ender si trattenne in sala di battaglia. Aveva notato che Dink Meeker arrivava invariabilmente a cena con un po’ di ritardo, e s’era detto che il capobranco si dedicava a un addestramento extra di qualche genere. Non aveva una gran fame, ed era curioso di sapere come Dink si allenava quando nessuno poteva vederlo.

Ma Dink non fece assolutamente nulla. Rimase fermo accanto alla porta, lo sguardo fisso su Ender.

Dal centro del vasto locale lui lo osservò in silenzio.

Nessuno dei due disse parola. Era chiaro che Dink aspettava l’uscita di Ender. E altrettanto chiaramente lui gli stava comunicando che non se ne sarebbe andato.

Dink allora gli volse le spalle, con gesti metodici si tolse la tuta da battaglia e poi si diede una spinta leggera, fluttuando via dal pavimento. Il suo volo lentissimo, fluido, lo portò attraverso la sala immersa nella penombra, col corpo quasi del tutto rilassato e le braccia mollemente distese quasi a cogliere il respiro delle inavvertibili correnti d’aria.

Dopo la fatica e la tensione degli esercizi, le imprecazioni, gli ordini e le manovre concitate, guardarlo galleggiare a quel modo era perfino riposante. Dink impiegò almeno dieci minuti per raggiungere la parete opposta. Infine si spinse indietro con uno scatto rapido, tornò dove aveva lasciato la tuta e la indossò.

— Andiamo — disse a Ender.

Tornati in camerata trovarono il locale vuoto, poiché tutti i ragazzi erano a mensa. I due andarono ai loro armadietti e misero tute da fatica pulite, quindi Ender ripassò accanto alla cuccetta di Dink e si fermò ad attendere che anch’egli fosse pronto.

— Perché mi hai aspettato? — domandò Dink.

— Non ho molta fame.

— Be’, ora sai perché non sono un comandante.

Ender se l’era già chiesto.

— In realtà mi hanno promosso, due volte, ma ho rifiutato.

Rifiutato? si stupirono gli occhi di Ender.

— Mi hanno tolto ogni volta la cuccetta, gli armadietti e il banco, mi hanno assegnato una cabina da comandante e mi hanno dato un’orda. Ma io sono rimasto nel mio alloggio, finché non si sono rassegnati a rimandarmi di nuovo in un’orda come subordinato.

— Perché?

— Perché non voglio che mi manovrino fino a questo punto. Non credo che tu abbia già saputo guardare in fondo a questa situazione, Ender. Ma tu sei ancora ingenuo. Tutte le altre orde, non sono loro il nemico. I nostri nemici sono gli insegnanti. Riescono a farci combattere l’uno contro l’altro, a farci odiare l’un l’altro. Tutto è gara. Vincere, vincere, vincere. E dietro questo c’è il niente. Ci ammazziamo a vicenda, diventiamo matti per battere questo o quell’avversario, e per tutto il tempo quei vecchi bastardi ci sorvegliano, ci studiano, scoprendo i nostri punti deboli, decidendo se siamo abbastanza bravi o no. Be’, abbastanza bravi per cosa? lo avevo sei anni quando mi hanno portato qui. Cosa diavolo potevo sapere? Loro decisero che io ero adatto al programma in corso, ma nessuno mi ha mai domandato se il programma era adatto a me.

— Allora perché non torni a casa?

Dink ebbe un sorriso storto. — Perché io non mi arrendo a metà gara. — Palpeggiò il tessuto della sua tuta da battaglia, distesa sulla cuccetta. — Perché amo tutto questo.

— Se è così, perché non essere un comandante?


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